https://www.youtube.com/embed/jwuWg6gcE20 Don Vincenzo Russo è il cappellano del carcere Sollicciano di Firenze. Si occupa di “poveri e disgraziati” - come li chiama lui - da ormai trent’anni e racconta di non stupirsi più di niente. La sua chiesa non ha navate lastricate di monumenti e affreschi: quattro panche e un crocifisso fanno di un sottoscala umido l’unico spazio di ascolto per coloro che la società ha smesso di guardare. Quando ci apre la porta che conduce a Sollicciano avvisa: “Entrare in carcere significa entrare nelle viscere della terra”. Don Russo, ci racconti perché ha scelto questa vita.  Sono cresciuto in un quartiere alla periferia di Napoli. Vivevo in un’area urbana di edilizia privata, dall’altra parte c’era uno spazio di edilizia popolare. Nel mezzo un’area verde: era lo spazio del confronto. Da una parte c’eravamo noi, che stavamo benino, e dall’altra i ragazzini delle case popolari che invece non avevano niente. Lo scontro era forte. Crescendo tra quelle ingiustizie era inevitabile che mi occupassi di carcere. Dopo tanti anni di esperienza in carcere come è cambiato il suo atteggiamento? All’inizio quasi tutti i detenuti mi dicevano di essere innocenti. Nonostante le prove, le condanne, i patteggiamenti. Eppure io non ero un giudice, ero semplicemente un prete. Dopo anni credo di aver capito, anche se per arrivarci sono dovuto andare in profondità: dentro le storie miserevoli di persone che non avevano niente. Non si trattava di nascondermi le cose, il loro era il racconto di una speranza. Sperare per chi sta scontando una condanna significa anche guadagnare una seconda possibilità. Che spazio c’è nella nostra società per il perdono? Ai detenuti lo stigma rimane addosso come un tatuaggio. Il giudizio della collettività si trasmette ai loro figli. Allora io cerco di ascoltarli, senza giudicare, e non mi scandalizzo di tutto ciò che deriva da una vita di bisogni negati. Credo che prima di me neanche Dio si scandalizzi, mentre nulla perdonano gli uomini agli altri uomini. Chi ha sbagliato ha bisogno di perdonare prima di tutto se stesso, per ritrovare la dignità. A proposito di dignità, alcuni regimi carcerari, come il 41bis, si pongono in contraddizione con diritti fondamentali della persona.  Il 41bis è un’offesa a Dio. L’ergastolo un’offesa all’uomo. Nessuno può essere recluso in un luogo snaturato, irreale. Chi ha sbagliato deve poter percorrere un cammino di ritorno e di rientro nella comunità. Su questo non c’è alcuna distinzione tra il pensiero laico e quello cristiano: esiste solo il rispetto per la persona. La nostra Costituzione stabilisce che la pena deve tendere alla rieducazione del soggetto. Che investimento dovrebbe fare lo Stato in questa direzione? Per alcuni reati gravi come quelli di stampo mafioso si tratta di riuscire a prevenirli. Certi fenomeni sono favoriti dalle condizioni territoriali, da quelle che io chiamo aree “carcerogere”: moltiplicatori di disuguaglianze, povertà e delinquenza. Soprattutto al Sud, dove le periferie sono luoghi dell’abbandono, terre di nessuno. Le persone non nascono criminali, lo diventano. Qualche giorno fa in questo carcere si è suicidato un detenuto indicato come collaboratore di giustizia. E’ stato ritrovato impiccato, ancora agonizzante. Ho visto troppi uomini finire con una corda al collo. Spesso chi decide di morire in carcere lo fa senza dire una parola, decide e basta. Qualche volta riesce a comunicare il suo dolore. E allora mi chiedo se si poteva fare qualcosa per salvarlo. Lei è un uomo di fede, che assolve in carcere a un rito essenziale come la confessione anche per chi non è credente. Come riesce a coniugare queste due esigenze? La confessione per me ha un valore sacramentale e un valore umano. Per i detenuti spesso rappresenta uno spazio di sicurezza, anche in considerazione del mio vincolo al silenzio. Raccontare è una liberazione, e io ascolto rispettando la sensibilità di chi ho davanti. Le relazioni più forti nascono da quel momento di verità e confronto: ho avuto delle bellissime esperienze di conversione, persone che ho aiutato e hanno cambiato vita. Se ci fossero più momenti così intensi nelle relazioni probabilmente si riuscirebbe a ridurre il fenomeno di reiterazione dei reati. I numeri dicono che per chi sconta la pena in carcere il tasso di recidiva è molto più alto di chi accede a misure alternative.  Il carcere dovrebbe essere una possibilità di austera risocializzazione per chi ha vissuto una vita di emarginazione. Bisogna preparare le persone a una prospettiva fuori dalle mura del penitenziario e rompere la catena della delinquenza. C’è chi si fa arrestare per avere un letto in cui dormire, soprattutto d’inverno. Spesso le famiglie dei detenuti commettono reati per poter mantenere i parenti in carcere. Bisogna cominciare a riflettere non solo sul carcere a cielo chiuso, ma anche sul carcere a cielo aperto. Lei è molto impegnato sul territorio con percorsi di recupero e reinserimento nella comunità. Con il progetto di Casa Caciolle - un grande centro rieducativo che offre appoggio a chi proviene dal carcere e non ha altri punti di riferimento - lavoriamo sul tema della marginalità grave proponendo numerose attività: cinema, musica, teatro. Un detenuto che cerca ospitalità deve trovare un luogo di vita, non solo un pasto caldo e un tetto per la notte. Questo vorrebbe dire dare seguito a quella modalità dello Stato di parcheggiare le persone e poi rimetterle nelle piazze. Io non voglio mettere le persone nelle piazze, voglio restituirgli dignità. *servizio video a cura di Lorem Ipsum