Le deviazioni correntizie della magistratura che vedono Luca Palamara come protagonista con l’intero ordine giudiziario e lo scontro tra Di Matteo e il ministro della giustizia hanno messo finalmente in evidenza la differenza che c'è tra la questione morale e la questione giudiziaria che da molto tempo viene negata o trascurata ed è fonte di tanti pericolosi equivoci.

Assistiamo da anni allo scontro tra garantisti e giustizialisti con polemiche vivaci tra di loro, ma alla fine si scopre che ognuno è alternativamente garantista e giustizialista a seconda della convenienza: così avviene a tutti livelli e la questione morale viene appannata.

Enrico Berlinguer negli anni 90 pose in maniera forte e drammatica la “questione morale“come problema sociale e istituzionale: lo fece in presenza della crisi del comunismo sovietico e della sua liquidazione per dare una linea politica al suo partito e per riscattarlo dai soprusi e dai finanziamenti sovietici. Operò questa scelta senza denunziare i “peccati“del Pci, per contestare il potere dei partiti della maggioranza che in quel periodo governavano.

La questione morale divenne prontamente questione penale perché Tangentopoli affidò il “controllo“ alla magistratura con le modalità ormai note anche nei dettagli. La magistratura o meglio le Procure si impegnarono a processare il ' sistema' più che a indagare sui singoli reati e sui diretti responsabili; e il giudice, nonostante le innumerevoli sentenze di assoluzione, acquistó le caratteristiche del valutatore etico che condanna il male per fare vincere il bene! Il confondere la ' morale' con il ' penale' ha quindi determinato tanti lutti e forse oggi vi può essere un chiarimento nell’interesse della vita sociale e dell’efficacia delle istituzioni.

Il tribunale di Perugia stabilirà se Palamara è responsabile di reati penali, riferiti alla sua persona che debbono avere una fattispecie precisa e specifica, ma le deviazioni drammatiche del correntismo che si afferma sopra ogni altro principio, non hanno valore penale ma appartengono al comportamento scorretto dei singoli e dell’organo di autogoverno ( Csm), al funzionamento scorretto delle situazioni, al non rispetto dell’indipendenza della magistratura, in una parola alla questione morale che interessa tutti e passa per ognuno di noi.

Palamara ha ragione nel dire che non può essere solo lui il responsabile di un metodo che è un andazzo da sempre, noto a tutti e con la partecipazione di tutti.

Nessuno può dichiararsi estraneo neanche quelli che magari timidamente o per salvarsi la coscienza hanno denunziato il sistema ma è risultato egualmente agevolato e resta convinto di avere ricevuto le agevolazioni ( cioè la promozione) perché più bravo!

E per questa ragione che desta ilarità il ripetuto esempio fatto da Davigo che sostiene di non volere più rapporti con chi invitato a cena ha rubato l’argento che è pur sempre un furto e quindi un reato. Il dottor Davigo non è consapevole che in questo caso non è stato rubato l’argento ma l’oro dell’indipendenza della magistratura come valore istituzionale per tutti cittadini, e quindi siamo di fronte ad una questione morale e istituzionale per la quale ognuno deve sentirsi responsabile.

Non siamo in presenza di reati ma di una distorsione istituzionale che coinvolge tutti. Con molta acutezza è stato detto che non bisogna osservare la “mela marcia” ma l’albero da cui quella mela proviene. E l’albero, diciamolo con chiarezza, è stato piantato negli anni 70 quando il Parlamento ha approvato la “progressione automatica e per anzianità' per cui tutti i magistrati sono bravi, anzi ognuno è più bravo dell’altro! E se tutti sono bravi come si fa ad assegnarli o promuoverli se non con un requisito in più: l’appartenenza alle correnti.

Agli atti della Camera sono registrati gli interventi di chi avvertì il pericolo per l’indipendenza della magistratura che con quella legge si voleva tutelare burocraticamente!

Contesto per questa ragione che la magistratura adoperi un metodo mafioso secondo una dichiarazione di stupefacente superficialità fatta da Di Matteo che è spiegabile soltanto per la sua deformazione professionale occupandosi ossessivamente di antimafia. D'altra parte è stato proprio Giancarlo Caselli a dire che Di Matteo essendo reattivo al solo ascolto della parola ' trattativa' in una trasmissione televisiva ha reagito! Si tratta come vediamo in queste ore di un metodo anche più grave sul piano istituzionale ma non mafioso perché manca la “costrizione', l'' assoggettamento', la ' intimidazione' come condizione, essendo tutti, ma proprio tutti d'accordo...

Rispetto a questi eventi il giustizialista chiede le dimissioni di chi appare il responsabile e il garantista invece invoca un cambiamento di regole e pretende riforme adeguate che non sono il ridicolo sorteggio dei membri togati per il Csm o il cambio del sistema per le elezioni dell’orhano che non servono assolutamente. Basta ricordare a questi ' riformatori' che all’inizio degli anni ‘ 90 i partiti già da allora in crisi, per evitare le correnti o l’aumento fittizio di altri partiti, cambiarono il sistema elettorale da proporzionale a uninominale e i partiti da 11 che erano diventarono 111, senza riuscire a contarli tutti.

Abbiamo detto tante volte che una riforma vera deve tenere conto del ruolo del magistrato che è profondamente diverso da quello disciplinato dai Costituenti e non è più un potere “diffuso“ma individuale: perciò il vestito vecchio non va più bene, è stretto e si strappa continuamente: con sofferenza per le istituzioni.

Le soluzioni le abbiamo elencate dagli anni ‘ 70 e i magistrati illuminati le conoscono, ma non le vogliono perché la cappa del corporativismo e del potere irresponsabile è troppo forte, e invece solo quelle riforme possono far rigenerare una istituzione come la magistratura e potenziare il suo ruolo destinato altrimenti a non essere più ' espressione' del popolo italiano. Per onorare la questione morale dunque non bisogna dimettersi come punizione auspicata ossessivamente da Davigo, ma accettare fino in fondo le riforme che eliminano davvero l'andazzo perverso finora adottato.

La stessa questione morale riguarda lo scontro tra il ministro di giustizia e Di Matteo il quale ha dato notizia, seppure in maniera incerta ed equivoca, di un reato che vede coinvolto il ministro come vittima e come autore del reato per il quale si attendono le decisioni della procura della Repubblica.

Ma inaspettatamente Di Matteo nell’audizione resa alla Commissione Parlamentare antimafia ha dichiarato che teneva ad assumere il ruolo di capo del Dap perché quelle competenze potevano essere utili per accertare le responsabilità della trattativa tra lo Stato e la mafia. Ho sempre sostenuto che il ministro non è tenuto a dare risposte trattandosi di una sua personale scelta, ma Di Matteo si è dato da solo la risposta: non può dirigere il Dap chi vuole ricercare in tutti modi, anche fuori dall’esclusiva attività giudiziaria, elementi a favore di una tesi, per ora smentita dalle sentenze.

Ecco, questo appartiene alla sfera morale, alla “questione morale“ che questa sì deve essere invocata e attuata ad ogni pié sospinto e distinta da quella penale.

In ogni caso la cultura morale viene prima di quella giurisdizionale.