È stato il magistrato Nino Di Matteo a dichiarare a Massimo Giletti, divenuto il suo confessore mediatico, che «privilegiare nelle scelte che riguardano la carriera di un magistrato il criterio dell’appartenenza a una corrente o a una cordata di magistrati è molto simile all’applicazione del metodo mafioso». E se lo dice lui, il più antimafioso dei magistrati, come non credergli? Aggiungiamo che Di Matteo è membro del Consiglio superiore della magistratura, grazie ad un’elezione dove non è azzardato presumere che anche nel suo caso possa aver avuto influenza il naturale gioco delle correnti che presiede alla selezione delle candidature e alla distribuzione dei voti. A parte questo, Di Matteo ha dato voce con una similitudine parossistica allo stupore dei cittadini di fronte al caso Palamara, un altro magistrato che, nelle intercettazioni subìte e nelle indiscrezioni rivelate in pubblico allo stesso confessore, ha ammesso che il sistema delle nomine consisteva nella spartizione delle cariche direttive tra gli esponenti delle varie correnti.
Insomma, per entrare al Csm e per farsene nominare ai vertici degli uffici giudiziari, bisognava accettare l’azione redistributiva praticata dai capi dell’Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe. E’ interessante notare che nella prima Repubblica lo stesso sistema, ma riferito alla politica generale, era vituperato ( ma non dai partiti) con il nome di lottizzazione, che significava strapotere usurpatorio dei partiti e ripartizione di incarichi, funzioni, uffici in proporzione della loro forza elettorale, nazionale o locale.
A ben vedere, tuttavia, la qualificazione delle nomine sentenziata da Di Matteo è nuova, sebbene in modo dirompente, solo per l’esplicito e gravissimo riferimento alla mafiosità del metodo, vieppiù greve provenendo da un magistrato di punta nelle inchieste sulla mafia. Infatti quel sistema era ed è il segreto di Pulcinella, essendo ben noto agli addetti ai lavori e ai non addetti che amano approfondire le cose. Palamara ammette, obtorto collo, che il Re è nudo. Di Matteo soggiunge che somiglia al Padrino.
Fin qui la pars destruens del magistrato Di Matteo risulta vera, corroborata da prove irrefutabili, dirette e indirette. Invece la pars construens appare fragile, un pio desiderio piuttosto che un rimedio efficace contro la lottizzazione, appunto, dei posti di componente del Csm e degli incarichi direttivi in magistratura che esso assegna per Costituzione. Infatti, nella stessa confessione, Di Matteo apre il cuore: «Più che le riforme serve a mio parere una svolta etica, un cambiamento vero che deve riguardare la mentalità dei consiglieri e la mentalità di tutti i magistrati». Orbene sorprende che un magistrato di tale esperienza trascuri la considerazione secondo cui nelle questioni di potere affidarsi alla palingenesi morale e alle svolte etiche non avvicina bensì allontana la soluzione dei problemi generati dall’immoralità, dalla slealtà, dalle frodi, le quali prosperano anche dove abbondano i magistrati onesti, capaci, virtuosi, se manca uno statuto dell’organo che raffreni le passioni e i difetti comuni ad ogni uomo, così aiutandolo ad essere migliore quanto possibile. Non sbaglia Machiavelli ad affermare: «E’ necessario, a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei». Né Hume a rincararne la dose: «Gli scrittori politici hanno stabilito come massima che, nell’escogitare qualunque sistema di governo e nel fissare i molti limiti e controlli della costituzione, ogni uomo dovrebbe proprio essere presunto un farabutto ed avere nessun altro fine, in tutte le sue azioni, che l’interesse personale. In base a questo interesse noi dobbiamo guidarlo e, per mezzo di esso, farlo cooperare al pubblico bene nonostante la sua insaziabile avidità ed ambizione».
Senza applicare tali principi non possiamo aspettarci nulla di risolutivo dalle prospettate riforme governative. Finché i magistrati del Csm saranno eletti, la logica correntizia prevarrà, magari sotto altro nome, perché dove sono elezioni lì sono lotte di potere, dappertutto. Solo istituendo per Costituzione l’estrazione a sorte dei membri del Csm sarà troncato il rapporto abusivo, nocivo e indecoroso, tra camarille sindacali, ambizioni personali, accordi elettorali, competenze istituzionali del Consiglio superiore della magistratura. L’elezione è addirittura controproducente; il sorteggio invece, funzionale. Parafrasando James Madison, se i magistrati fossero angeli non sarebbe necessaria l’estrazione a sorte, perché elettori virtuosi sceglierebbero consiglieri probi. Ma le confessioni di Palamara dimostrano che esistono anche angeli decaduti.
Di Matteo e l’illusione di una svolta etica. La riforma del Csm? Meglio il sorteggio
È stato il magistrato Nino Di Matteo a dichiarare a Massimo Giletti, divenuto il suo confessore mediatico, che «privilegiare nelle scelte che riguardano la carriera di un magistrato il criterio dell’appartenenza a una corrente o a una cordata di magistrati è molto simile all’applicazione del metodo mafioso». E se lo dice lui, il più antimafioso dei magistrati, come non credergli? Aggiungiamo che Di Matteo è membro del Consiglio superiore della magistratura, grazie ad un’elezione dove non è azzardato presumere che anche nel suo caso possa aver avuto influenza il naturale gioco delle correnti che presiede alla selezione delle candidature e alla distribuzione dei voti. A parte questo, Di Matteo ha dato voce con una similitudine parossistica allo stupore dei cittadini di fronte al caso Palamara, un altro magistrato che, nelle intercettazioni subìte e nelle indiscrezioni rivelate in pubblico allo stesso confessore, ha ammesso che il sistema delle nomine consisteva nella spartizione delle cariche direttive tra gli esponenti delle varie correnti.
Insomma, per entrare al Csm e per farsene nominare ai vertici degli uffici giudiziari, bisognava accettare l’azione redistributiva praticata dai capi dell’Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe. E’ interessante notare che nella prima Repubblica lo stesso sistema, ma riferito alla politica generale, era vituperato ( ma non dai partiti) con il nome di lottizzazione, che significava strapotere usurpatorio dei partiti e ripartizione di incarichi, funzioni, uffici in proporzione della loro forza elettorale, nazionale o locale.
A ben vedere, tuttavia, la qualificazione delle nomine sentenziata da Di Matteo è nuova, sebbene in modo dirompente, solo per l’esplicito e gravissimo riferimento alla mafiosità del metodo, vieppiù greve provenendo da un magistrato di punta nelle inchieste sulla mafia. Infatti quel sistema era ed è il segreto di Pulcinella, essendo ben noto agli addetti ai lavori e ai non addetti che amano approfondire le cose. Palamara ammette, obtorto collo, che il Re è nudo. Di Matteo soggiunge che somiglia al Padrino.
Fin qui la pars destruens del magistrato Di Matteo risulta vera, corroborata da prove irrefutabili, dirette e indirette. Invece la pars construens appare fragile, un pio desiderio piuttosto che un rimedio efficace contro la lottizzazione, appunto, dei posti di componente del Csm e degli incarichi direttivi in magistratura che esso assegna per Costituzione. Infatti, nella stessa confessione, Di Matteo apre il cuore: «Più che le riforme serve a mio parere una svolta etica, un cambiamento vero che deve riguardare la mentalità dei consiglieri e la mentalità di tutti i magistrati». Orbene sorprende che un magistrato di tale esperienza trascuri la considerazione secondo cui nelle questioni di potere affidarsi alla palingenesi morale e alle svolte etiche non avvicina bensì allontana la soluzione dei problemi generati dall’immoralità, dalla slealtà, dalle frodi, le quali prosperano anche dove abbondano i magistrati onesti, capaci, virtuosi, se manca uno statuto dell’organo che raffreni le passioni e i difetti comuni ad ogni uomo, così aiutandolo ad essere migliore quanto possibile. Non sbaglia Machiavelli ad affermare: «E’ necessario, a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei». Né Hume a rincararne la dose: «Gli scrittori politici hanno stabilito come massima che, nell’escogitare qualunque sistema di governo e nel fissare i molti limiti e controlli della costituzione, ogni uomo dovrebbe proprio essere presunto un farabutto ed avere nessun altro fine, in tutte le sue azioni, che l’interesse personale. In base a questo interesse noi dobbiamo guidarlo e, per mezzo di esso, farlo cooperare al pubblico bene nonostante la sua insaziabile avidità ed ambizione».
Senza applicare tali principi non possiamo aspettarci nulla di risolutivo dalle prospettate riforme governative. Finché i magistrati del Csm saranno eletti, la logica correntizia prevarrà, magari sotto altro nome, perché dove sono elezioni lì sono lotte di potere, dappertutto. Solo istituendo per Costituzione l’estrazione a sorte dei membri del Csm sarà troncato il rapporto abusivo, nocivo e indecoroso, tra camarille sindacali, ambizioni personali, accordi elettorali, competenze istituzionali del Consiglio superiore della magistratura. L’elezione è addirittura controproducente; il sorteggio invece, funzionale. Parafrasando James Madison, se i magistrati fossero angeli non sarebbe necessaria l’estrazione a sorte, perché elettori virtuosi sceglierebbero consiglieri probi. Ma le confessioni di Palamara dimostrano che esistono anche angeli decaduti.
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