Mi rendo conto che a parlare o scrivere bene degli Stati Generali dell’Economia voluti dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ha dovuto diluirli e adattarli alle prime reazioni quanto meno scettiche del Pd, un partito non certamente all’opposizione, si rischia l’ironia. Che è un po’ quella involontariamente opposta domenica su Repubblica dall’urticante Francesco Merlo all’editoriale invece compiaciuto del veneratissimo e venerando anche per età Eugenio Scalfari. Che, con la cultura storica di cui dispone, ha protetto Conte anche dal fantasma degli Stati Generali costati la testa e il trono più di 200 anni fa a Luigi XVI, ricordando appuntamenti analoghi risoltisi più fortunatamente per i loro promotori. Fra i quali egli ha messo anche Cavour: sì, proprio lui, il conte Camillo Benso di Cavour. Va detto pure che Conte, al maiuscolo, e i suoi collaboratori hanno fatto tutto quello che era necessario per rendere l’evento indigesto a quanti per mestiere debbono seguirlo e scriverne. Con tutto lo spazio esterno e interno della Villa Doria Pamphili, non si è riusciti a mettere a disposizione dei giornalisti neppure un cortile come quello di Montecitorio, dove la stampa parlamentare è stata confinata dopo la promozione, o il declassamento, come si preferisce, dello storico Transatlantico in appendice dell’aula per interventi, votazioni e quant’altro. Neppure come animali da cortile sono stati trattati i giornalisti nella grande villa sull’Aurelia antica, fra le sacrosante proteste di ordini e associazioni professionali, a cominciare da quella della stampa parlamentare. Migliore fortuna forse avremmo avuto nella più modesta ma pur sempre appropriata Villa Lubin, sede nel parco di Villa Borghese del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, sopravvissuto all’abrogazione tentata da Matteo Renzi nel 2016 con la sua riforma costituzionale. Eppure, nonostante questi ed altri limiti ancora, compresi i sospetti a torto o a ragione caduti su Conte di avere cercato un’occasione di altissima esposizione personale fine a se stessa, raccolti persino da Ezio Mauro su Repubblica scrivendo di “operazione in proprio di Palazzo Chigi”, sono portato ad apprezzare più chi ha accettato di partecipare a questi Stati Generali che quanti hanno sdegnosamente rifiutato. Parlo naturalmente del centrodestra, ritrovatosi insieme anche in questa occasione dopo qualche tentennamento, nel rivendicare il diritto di fare opposizione solo in Parlamento, nelle piazze e nelle strade. Dove si sgomitolano bandiere a metraggio, con e senza mascherine, com’è recentemente accaduto a Roma mentre il capo dello Stato celebrava dignitosamente i 74 anni della Repubblica dividendosi fra l’Altare della Patria e le località emblematiche, da Codogno a Roma, della tragica epidemia virale da cui non siamo ancora usciti davvero. Gli assenti hanno sempre torto, non solo dai tempi dell’Aventino. Hanno torto anche come assenti ai seggi elettorali quando si è chiamati alle urne, magari dopo averle reclamate prima della scadenza ordinaria. A sentire commenti non allarmati ma compiaciuti sull’assenteismo elettorale, a volte superiore anche al 50 per cento, inorridisco perché la considero la peggiore sconfitta dell’opposizione, masochisticamente contenta di farsi così governare, ai vari livelli, dalla minoranza e non dalla maggioranza. L’errore per me imperdonabile commesso dal centrodestra nella vicenda degli Stati Generali dell’Economia è stato quello di disertarli dopo avere apprezzato il piano predisposto da Vittorio Colao sulle riforme necessarie per risanare il Paese e spendere bene i finanziamenti europei: un piano invece liquidato dai grillini come inaccettabile perché infarcito di ‘ lobbismo’. Se c’era un tema e un momento per inserirsi nei soliti conflitti interni alla maggioranza e svolgere un ruolo attivo erano questi: altro che disertare la partita. E farsi poi infilzare letteralmente da Conte, almeno per quanto riguarda la Lega di Salvini, ma in parte anche per la destra di Giorgia Meloni, con l’invito a chiarirsi con gli amici e alleati sovranisti dei paesi europei – Visigradda cui provengono gli unici o maggiori ostacoli alla quantità e qualità di finanziamenti comunitari di cui ha bisogno l’Italia per riprendersi. Fermo restando il quadro altre volte già esposto qui dei due schieramenti, di maggioranza e di opposizione, ugualmente eterogenei e divisi, temo che le cose stiano ormai peggiorando addirittura più nel centrodestra, forse bisognoso dei suoi Stati Generali, che nell’area giallorossa. Alla quale Matteo Salvini, Giorgia Merloni e Silvio Berlusconi, in ordine della loro consistenza elettorale, stanno dando con i loro errori un soccorso forse immeritato, e – temo- dannoso per il Paese e, in fondo, per lo stesso Conte. Cui il direttore della Stampa Massimo Giannini, forse non a torto, ha voluto ricordare, al di là delle smentite già opposte dall’interessato, che più di fare un nuovo partito dovrebbe preoccuparsi di mettere un po’ d’ordine in quello che, avendolo designato due volte alla guida del governo, rimane pur sempre il suo o il quasi suo. E’ naturalmente il Movimento delle 5 Stelle, dove solo a parlare di un’assemblea costituente o di un congresso presumibilmente chiarificatore, come ha appena fatto il barricadiero Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici, a Beppe Grillo sono venute le paturnie.
L’errore del centrodestra: elogiare il piano Colao e disertare villa Pamphili
Mi rendo conto che a parlare o scrivere bene degli Stati Generali dell’Economia voluti dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ha dovuto diluirli e adattarli alle prime reazioni quanto meno scettiche del Pd, un partito non certamente all’opposizione, si rischia l’ironia. Che è un po’ quella involontariamente opposta domenica su Repubblica dall’urticante Francesco Merlo all’editoriale invece compiaciuto del veneratissimo e venerando anche per età Eugenio Scalfari. Che, con la cultura storica di cui dispone, ha protetto Conte anche dal fantasma degli Stati Generali costati la testa e il trono più di 200 anni fa a Luigi XVI, ricordando appuntamenti analoghi risoltisi più fortunatamente per i loro promotori. Fra i quali egli ha messo anche Cavour: sì, proprio lui, il conte Camillo Benso di Cavour. Va detto pure che Conte, al maiuscolo, e i suoi collaboratori hanno fatto tutto quello che era necessario per rendere l’evento indigesto a quanti per mestiere debbono seguirlo e scriverne. Con tutto lo spazio esterno e interno della Villa Doria Pamphili, non si è riusciti a mettere a disposizione dei giornalisti neppure un cortile come quello di Montecitorio, dove la stampa parlamentare è stata confinata dopo la promozione, o il declassamento, come si preferisce, dello storico Transatlantico in appendice dell’aula per interventi, votazioni e quant’altro. Neppure come animali da cortile sono stati trattati i giornalisti nella grande villa sull’Aurelia antica, fra le sacrosante proteste di ordini e associazioni professionali, a cominciare da quella della stampa parlamentare. Migliore fortuna forse avremmo avuto nella più modesta ma pur sempre appropriata Villa Lubin, sede nel parco di Villa Borghese del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, sopravvissuto all’abrogazione tentata da Matteo Renzi nel 2016 con la sua riforma costituzionale. Eppure, nonostante questi ed altri limiti ancora, compresi i sospetti a torto o a ragione caduti su Conte di avere cercato un’occasione di altissima esposizione personale fine a se stessa, raccolti persino da Ezio Mauro su Repubblica scrivendo di “operazione in proprio di Palazzo Chigi”, sono portato ad apprezzare più chi ha accettato di partecipare a questi Stati Generali che quanti hanno sdegnosamente rifiutato. Parlo naturalmente del centrodestra, ritrovatosi insieme anche in questa occasione dopo qualche tentennamento, nel rivendicare il diritto di fare opposizione solo in Parlamento, nelle piazze e nelle strade. Dove si sgomitolano bandiere a metraggio, con e senza mascherine, com’è recentemente accaduto a Roma mentre il capo dello Stato celebrava dignitosamente i 74 anni della Repubblica dividendosi fra l’Altare della Patria e le località emblematiche, da Codogno a Roma, della tragica epidemia virale da cui non siamo ancora usciti davvero. Gli assenti hanno sempre torto, non solo dai tempi dell’Aventino. Hanno torto anche come assenti ai seggi elettorali quando si è chiamati alle urne, magari dopo averle reclamate prima della scadenza ordinaria. A sentire commenti non allarmati ma compiaciuti sull’assenteismo elettorale, a volte superiore anche al 50 per cento, inorridisco perché la considero la peggiore sconfitta dell’opposizione, masochisticamente contenta di farsi così governare, ai vari livelli, dalla minoranza e non dalla maggioranza. L’errore per me imperdonabile commesso dal centrodestra nella vicenda degli Stati Generali dell’Economia è stato quello di disertarli dopo avere apprezzato il piano predisposto da Vittorio Colao sulle riforme necessarie per risanare il Paese e spendere bene i finanziamenti europei: un piano invece liquidato dai grillini come inaccettabile perché infarcito di ‘ lobbismo’. Se c’era un tema e un momento per inserirsi nei soliti conflitti interni alla maggioranza e svolgere un ruolo attivo erano questi: altro che disertare la partita. E farsi poi infilzare letteralmente da Conte, almeno per quanto riguarda la Lega di Salvini, ma in parte anche per la destra di Giorgia Meloni, con l’invito a chiarirsi con gli amici e alleati sovranisti dei paesi europei – Visigradda cui provengono gli unici o maggiori ostacoli alla quantità e qualità di finanziamenti comunitari di cui ha bisogno l’Italia per riprendersi. Fermo restando il quadro altre volte già esposto qui dei due schieramenti, di maggioranza e di opposizione, ugualmente eterogenei e divisi, temo che le cose stiano ormai peggiorando addirittura più nel centrodestra, forse bisognoso dei suoi Stati Generali, che nell’area giallorossa. Alla quale Matteo Salvini, Giorgia Merloni e Silvio Berlusconi, in ordine della loro consistenza elettorale, stanno dando con i loro errori un soccorso forse immeritato, e – temo- dannoso per il Paese e, in fondo, per lo stesso Conte. Cui il direttore della Stampa Massimo Giannini, forse non a torto, ha voluto ricordare, al di là delle smentite già opposte dall’interessato, che più di fare un nuovo partito dovrebbe preoccuparsi di mettere un po’ d’ordine in quello che, avendolo designato due volte alla guida del governo, rimane pur sempre il suo o il quasi suo. E’ naturalmente il Movimento delle 5 Stelle, dove solo a parlare di un’assemblea costituente o di un congresso presumibilmente chiarificatore, come ha appena fatto il barricadiero Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici, a Beppe Grillo sono venute le paturnie.
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