La pandemia non è soltanto un mostro che uccide uomini e donne. Infetta anche la loro ragione. Non la spegne: la deforma. Come se tra la speranza e gli affanni, tra le paure e la rabbia, invece di riflettere che potrebbe essere il loro ultimo giorno e godersi la felicità della sopravvivenza agognata ( Orazio!), gli esseri umani, non tutti per fortuna, sentissero l’irrefrenabile bisogno di filosofare: un bisogno chiaramente indotto dalla paura, non dall’amore della conoscenza. Tant’è che i veri filosofi, non i professionisti del pensiero mediatico, non trinciano giudizi come i tifosi di calcio, ma sprofondano nelle riflessioni e sospendono le conclusioni. Tacciono a lungo prima di pronunciarsi, contrariamente ai filosofi della pandemia, i quali elaborano teorie né richieste, né meditate, né utili.

“Concordia nazionale”, “Progetto comune”, “Nuovo modello di sviluppo”, “Ritrovare il bene comune”, sono alcuni dei più profondi filosofemi elaborati dai pensatori della pandemia, che vorrei chiamare “pandemisti” con un neologismo non troppo azzardato. Tra loro primeggia l’intellettuale che ha posto a un cardinale l’interrogativo dirompente: «Il virus genera paura e bisogno degli altri, insieme».

Come le sembra abbia fatto irruzione nelle coscienze il tema dell’altro da sé? La risposta del principe della Chiesa è stata all’altezza: «L’assenza ci fa capire il valore della presenza» ( Corriere della Sera,

31.5.2020). Mentre la “concordia nazionale” esprime un’etica e una condizione verificabili, consistenti nell’accantonare provvisoriamente i dissensi secondari per conseguire uno specifico, contingente, superiore interesse comune ( per esempio, vincere la guerra), il “progetto comune” invece non identifica nulla di “comune” nell’accezione sottintesa ma sembra avere un senso finché rimane inespresso nei dettagli; appena precisati i quali, perde ogni significato apprezzabile e efficace. Quanto al “nuovo modello di sviluppo”, bisogna sottolineare che costituisce un’impostura, la manifestazione ingannevole dell’aspirazione tanto stolta quanto perniciosa a sovvertire l’ordine spontaneo della società aperta, un’aspirazione, consapevole oppure no, sempre connaturata all’uzzolo del socialismo nelle sue varianti anche meno distruttive.

E bisogna pure ricordare che “nuovo modello di sviluppo” fu negli anni Settanta la formula magica della contestazione antioccidentale, politica, sindacale, studentesca, non sempre pacifica come ben sappiamo.

Sul “bene comune” si sono affannate nel corso della storia le filosofie, le religioni, le sociologie, senza mai approdare a nulla di concordante: un risultato più che paradossale considerando l’obiettivo della ricerca, cioè che tutti cercavano la stessa cosa. Questi diversi ricercatori del bene comune si sono convinti d’essere riusciti a trovarlo in tanti “beni” di vario genere fuorché nell’unico vero bene comune che ne merita appieno la definizione, nella forma e nella sostanza: la libertà.

Purtroppo l’impulso a filosofare ha contagiato anche pensatori accreditati. Uno deve essere citato per nome, non solo perché ha una cattedra universitaria, ma anche perché scrive libri di risonanza mondiale. E’ Thomas Piketty, che ha fama di grande economista e vende milioni di copie. In un’intervista a Stefano Montefiori ha dichiarato tra l’altro: «La quarantena ha dimostrato disuguaglianze estreme. Siamo stati chiamati a restare tutti in casa, ma molti una casa non ce l’hanno e sono rimasti per strada come sempre, altri hanno trascorso due mesi prigionieri di appartamenti microscopici, altri ancora hanno goduto delle loro grandi case con giardino. L’epidemia ha amplificato e messo ancor più sotto gli occhi di tutti problemi che esistevano già. Il nostro sistema economico va cambiato, non è mai stato chiaro come adesso». Insomma, anche lui, dopo aver collegato avventurosamente la pandemia alla crisi degli alloggi e alla disuguaglianza materiale, invoca un nuovo modello di sviluppo, sorvolando ( tu quoque, celebrato economista!) sul fatto che, dove viene applicato, i poveri sono più numerosi, più poveri e non hanno neppure il monolocale. Infine, alla domanda cruciale dell’intervistatore: «Dopo decenni di retorica dell’eccellenza, nel suo libro lei non è tenero con la meritocrazia», il pensatore ha seriamente risposto: «Il problema è che l’ideologia della meritocrazia è spesso abbracciata dai vincenti del sistema educativo per dare ai perdenti la colpa dei loro insuccessi».

Qui il lettore resta sgomento a rimuginare se Piketty possa essere considerato padrone di sé, restando un accademico che tutti si aspetterebbero perciò consacrato alla meritocrazia, oppure senza accorgersene stia confessando d’essere un perdente di successo.