Due anni e un giorno a Palazzo Chigi. Da avvocato del popolo “orgogliosamente populista”, come si era definito nel suo primo discorso alle Camere, a “punto di riferimento dei progressisti”, etichetta donatagli dal segretario Pd Nicola Zingaretti, con l’obiettivo, dichiarato in avvio di secondo mandato, di mettere la basi per un nuovo umanesimo.

Per Matteo Salvini e Luigi Di Maio, subito ribattezzati novelli dioscuri della politica italiana, il professor Conte doveva essere il mero portavoce delle aspirazioni di due leadership forti, impregnate di populismo e sovranismo. Doveva essere il volto educato del governo del cambiamento, incarnazione della rabbia e della delusione espressa nelle urne dagli italiani. Nulla di più. Un calcolo che i 18 mesi seguenti dimostrarono essere clamorosamente sbagliato. Il cauto portavoce ha mostrato doti e qualità che in pochi avevano notato e che, sicuramente, quella che era la coppia forte della politica italiana non era stata in grado di intravedere. Un errore che entrambi hanno pagato. In primo luogo, Luigi Di Maio che si è visto sfilare il ruolo di riferimento del Movimento all’interno dell’esecutivo di avvio di legislatura, in un appannamento personale inversamente proporzionale al peso crescente del premier. La scorsa estate, poi, la stessa sorte è toccata a Matteo Salvini quando ha immaginato di potersi liberare del capo del governo con un colpo di teatro.

Così, stretto in Italia dalle propagande incrociate di Lega e 5Stelle, il Conte 1 ha saputo costruire sul palcoscenico europeo e internazionale le basi di quella credibilità personale che gli ha consentito di restare a Palazzo Chigi anche dopo la folle estate del 2019 e reinventarsi nel Conte 2. Ma cosa resta del primo Conte nell’attuale capo del Governo? Resta poco o nulla del cambiamento radicale annunciato e promesso in quel mix unico in Europa di populismo e sovranismo da leghisti e grillini in campagna elettorale prima, e nei 18 mesi di governo, poi. La realtà, in definitiva, è stato un banco di prova insuperabile per la propaganda.

Resta, ovviamente, Giuseppe Conte nella sintesi perfetta - e surreale - tra l’avvocato del popolo orgogliosamente populista e il politico bandiera dei progressisti portatore di un nuovo umanesimo. Il cambio di maggioranza, infatti, ha obbligato il premier a correggere il registro, ma non a mutarlo completamente. In alcune posture, soprattutto a livello europeo, si scorge l’impronta del Conte 1. In uno dei momenti più delicati del confronto continentale il premier non ha lesinato dichiarazioni dal sapore populista come quel “altrimenti faremo da soli” rivolto agli altri leader dell’Unione. Anche la gestione della comunicazione nell’emergenza del Covid19 ha portato e porta i segni della stagione precedente. L’uso e l’abuso delle dirette facebook, la disintermediazione come mantra nel rapporto con l’opinione pubblica, una malcelata irritazione dimostrata davanti alle obiezioni e alle critiche della stampa. E, su tutto, il tono e il linguaggio paternalistici nei confronti dei cittadini. Sarebbe sbagliato considerare questi aspetti semplicemente l’eredità di una stagione passata; sono piuttosto parte del dna del premier, del suo percorso politico che è indivisibile da quello del partito che lo ha portato a sorpresa a Palazzo Chigi. E con i 5Stelle il presidente del Consiglio condivide la necessità di portare a compimento quell’evoluzione iniziata con la fine del primo esecutivo Conte, quello smarcamento dalle origini populiste e antipolitiche che renderebbe entrambi capaci di reggere l’urto della prova di governo e di rendere politicamente stabile e duratura questa maggioranza.

È quanto si aspetta una parte del Partito democratico che è pronta a legarsi strutturalmente al Movimento, come dimostrano le recenti dichiarazioni del ministro Franceschini. Ci sono le basi per costruire questo percorso? Si scorgono indicazioni tali da rendere possibile questa evoluzione? A ben guardare è un compito che Conte, per le qualità tattiche e la capacità di adattamento dimostrate, può svolgere, ma che il Movimento - per natura, origini, gruppo dirigente – non sembra in grado di saper e voler assolvere fino in fondo.