«Nel 2016, quando ero presidente del Consiglio, l'allora Guardasigilli, il bravo Andrea Orlando, mi disse: “Abbiamo un problema, sta morendo Bernardo Provenzano. Ci viene chiesto di farlo morire a casa”. Noi che siamo per la giustizia e per il buonismo abbiamo preso un impegno: garantire a Provenzano e Riina il massimo delle cure possibili perché noi eravamo, siamo e saremo lo Stato. Ma Bernardo Provenzano e Totò Riina sono morti in carcere perché quello era il loro posto e questo non è buonismo, questa è giustizia», ha tuonato ieri Matteo Renzi, leader di Italia Viva, annunciando che non avrebbe votato la mozione di sfiducia nei confronti del Guardasigilli. Nel farlo ha rivendicato che è stato lui a decidere che Provenzano morisse al 41 bis.

Giustizia? No, in realtà è stata una ingiustizia secondo la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Infatti nell’ottobre del 2018 la Cedu ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3, ovvero per pena o trattamento inumano o degradante. La violazione è riferita al provvedimento di proroga del regime del 41 bis emesso nei confronti di Bernardo Provenzano il 23 marzo 2016, qualche mese prima della sua morte, avvenuta il 13 luglio 2016. In particolare la Cedu, accogliendo solo parzialmente una delle doglianze formulate dal ricorrente, ha motivato la riconosciuta violazione del divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti facendo riferimento alla insufficiente valutazione, nel provvedimento di proroga, del deterioramento delle funzioni cognitive del detenuto.

Infatti, hanno rilevato i giudici di Strasburgo, «la gravità della situazione avrebbe richiesto non solo una più dettagliata e attenta motivazione delle ragioni in favore della proroga, ma anche la necessaria valorizzazione del progressivo deterioramento delle funzioni cognitive del ricorrente». Nel decreto di proroga firmata dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, invece, non vi è alcuna valutazione autonoma di tale situazione di salute, ma solo due riferimenti alle relazioni della Dna e della Dda di Palermo, che a loro volta si basavano su valutazioni non aggiornate della situazione cognitiva di Provenzano. La ragione della violazione dell’art. 3, dunque, risiedeva nel non aver dimostrato, nel provvedimento ministeriale, che il ricorrente, nonostante lo stato di deterioramento psichico, sarebbe stato in grado di comunicare con l’associazione, qualora fosse stato collocato in regime ordinario.

Quindi non c’entra il buonismo, ma il rispetto dei diritti umani. Se finora il 41 bis è passato al vaglio della Cedu e della Consulta è grazie a chi, con coraggio e senso di responsabilità, ha evitato condanne di questo tipo. Altre ingiustizie del genere, come quelle rivendicate da Renzi, e il 41 bis rischia l’incostituzionalità.