Al telefono Tommaso Nannicini, senatore Pd, sospira: «Per formazione e perché prendo molto sul serio il lavoro nel Parlamento, non commento le bozze». Giusto, per carità. Però a quest’ora del pomeriggio e inesorabilmente viene da dire, le notizie di rinvio del Consiglio dei ministri si susseguono, mentre quel che resta è una bozza di decreto di 500 pagine e 245 articoli. Proviamo così: è questo malloppone la bussola per scongiurare la recessione post- Covid?

«Le dico questo: che sarebbe stato bene non chiamarlo decreto Aprile. E neppure Maggio. Non per una questione nominalistica ma perché la logica del mese per mese per raggiungere l’estate è sbagliata. Il tema vero, a mio avviso, è come anticipiamo la crisi occupazionale e sociale che la recessione creata dalla pandemia scaricherà sul Paese. Abbiamo bisogno di un intervento che abbia lo sguardo lungo: purtroppo temo che l’approccio sia invece ancora da sguardo breve».

E questo accade perché manca la consapevolezza della drammaticità della situazione o perché la politica è incapace di lungimiranza?

«E’ un discorso che ci porterebbe lontani: non è un male di oggi. Il problema è che questa miopia oggi minaccia di avere un costo enorme. Se prima la capacità imprenditoriale e la fantasia degli italiani sopperivano alle lentezze della politica, adesso di fronte a uno tsunami come questo non ce lo possiamo permettere. Abbiamo bisogno di interventi che aggrediscano i nodi strutturali del Paese, uno Stato sociale colabrodo, una Pubblica amministrazione inefficiente, un sistema imprenditoriale sotto capitalizzato e sottodimensionato».

Il che significa...

«Significa che se nel 2021 non agganciamo la ripresa, stavolta non ci sarà solo una questione occupazionale e di crescita ma anche di sostenibilità del debito. Adesso fare debito è giusto, però l’unico modo che abbiamo per ripagarlo - e partiamo da condizioni impervie - è di crescere. Dunque ci avviamo a grandi passi verso due crisi: quella occupazionale dell’autunno e la scarsa crescita. Se non le anticipiamo, saranno dolori».

Nel concreto, senatore, come si fa?

«Beh, diciamo che come abbiamo fatto la App Immuni, adesso serve una App occupati. Con una garanzia del reddito non solo per i poveri ma per i senza lavoro. Se perdi il lavoro non devi aspettare di perdere anche la casa perché lo Stato ti aiuti col reddito di cittadinanza. Ci deve essere un salario di disoccupazione mentre fai formazione e qualcuno ti aiuta a ritrovare lavoro nei settori che ripartiranno. Occorrono servizi per il lavoro veri, tecnologici, per dare una formazione adeguata e tempestiva. È la formazione permanente il nuovo articolo 18. Così come abbiamo cercato in pochi mesi di sopperire ai limiti del sistema sanitario, così dobbiamo fare per le politiche del lavoro. Le risorse dobbiamo dirottarle lì, non sui bonus per arrivare all’estate. Serve una terapia intensiva per il welfare. Se qualcuno pensa di uscirne vietando alle imprese di licenziare mantenendo per decreto i livelli occupazioni, temo si illuda o illuda».

E adesso arriva la crescita...

«Certo. Anche qui: dobbiamo uscire dalla liquidità a pioggia o dall’illusione dello Stato imprenditore. Tra l’altro, se il primo esempio del nuovo Stato imprenditore sono altri miliardi degli italiani buttati su Alitalia, lasciamo perdere. Piuttosto incentiviamo le imprese che reinvestono gli utili sull’innovazione tecnologica e sulla transizione ecologica. Tagliamo il costo del lavoro alle imprese che creano nuovo lavoro e detassiamo gli aumenti nei contratti collettivi. E poi facciamo investimenti pubblici. Scuola, sanità, infrastrutture digitali e materiali: la sfida dell’efficienza energetica non è solo ecobonus. Creiamo domanda, aiutiamo le imprese a disegnare mondi nuovi, serve uno shock».

Senatore, se si facesse anche solo la metà di quello che dice sarebbe una vera rivoluzione...

«Se ci illudiamo che basta arrivare all’estate dando 600 euro a tutti, anche a chi un lavoro ce l’ha ed è stato colpito come tutti dal costo emotivo del lockdown, che non sottovaluto, ma non da quello economico, non ne usciamo. Con i bonus a pioggia sprechiamo le risorse che ora ci sono ma che dopo l’estate finiranno. Il decreto Rilancio dispone di 55 miliardi: una iniezione formidabile di risorse che vanno spese bene. Per dire. C’è chi propone di tassare i redditi sopra gli 80 mila euro. Ma adesso a questi diamo i 600 euro famosi. Meglio dare il bonus in maniera selettiva e utilizzare per la crescita i soldi che risparmio» .

Senatore, ma al dunque cos’è che impedisce di agire nella direzione che lei suggerisce? Qual è il male oscuro da abbattere?

«C’è un mix di più elementi. Il primo è la sottovalutazione. In fondo siamo andati avanti così per tanto tempo, continuando a mettere toppe. Ma questo, da una parte, stride con la retorica del “niente sarà come prima”. E dall’altra significa non capire che è arrivato un ciclone che ha colpito tutti, solo che altri Stati avevano case di cemento mentre le nostre erano fatte di canne di bambù. Il secondo elemento è la frammentazione politica. Ogni partito pianta le sue bandierine. Abbiamo due leggi di bilancio che appartengono alla preistoria e che andrebbero rivoltate come un calzino. Ma non lo facciamo perché ogni comma è la bandierina di qualche partito. Prendiamo quota 100: che bisogno c’è di darla adesso a uno che ha un lavoro stabile? O la regolarizzazione dei migranti, che se fatta bene ci darebbe introiti enormi. Ma sono esempi di cui se solo ne parli, la politica va in corto circuito. Terzo elemento, la sfiducia nelle capacità di intervento dello Stato. Abbiamo bisogno di più servizi, ma poiché facciamo fatica a riformare la macchina pubblica allora uno dice: mi arrendo, do il bonus a pioggia. Ma nella situazione che ci aspetta, arrendersi vuol dire alzare le mani di fronte allo sfascio».

Senatore, ma per affrontare una sfida così delicata e impegnativa, l’attuale maggioranza e il governo Conte sono sufficienti? O bisognerebbe puntare su maggiore coinvolgimento e larghe intese?

«Ovviamente io mi auguro che questa maggioranza faccia uno scatto. Al momento non lo sta facendo. Poi, di fronte alle emergenze da affrontare, mi piacerebbe un quadro di maggiore unità istituzionale. Non necessariamente un nuovo governo ma la capacità di maggioranza e minoranza di trovare un minimo comun denominatore mettendo al centro l’interesse generale. Però è molto difficile farlo, e francamente le colpe sono ben distribuite. Fare un governo di unità nazionale con Salvini che vuole uscire dall’euro mi sembra complicato. Anche se tenere in piedi questa maggioranza eterogenea è altrettanto complicato. E comprendo che stiamo concludendo l’intervista su toni pessimistici...»

Diciamo realistici...

«Io cerco di attenermi alla massima di Roosevelt: ‘ Fai quel che puoi, dove sei, con quel che hai’. E ho molto ottimismo della volontà, sennò non farei il politico. La politica italiana è rissosa e frammentata, ma ci sono ancora tante energie dalle quali potrebbe arrivare un colpo d’ala».