La polemica tra il Guardasigilli Alfonso Bonafede e il Pm Antonino Di Matteo mi ha fatto venire in mente tre personaggi della nostra storia politica.

Il primo è Pietro Nenni, al quale è attribuita la frase: «Attento a fare il puro, che poi arriva uno più puro che ti epura». Era la frizzante ironia del repubblicano e poi socialista romagnolo sulle purghe staliniane nei confronti dei «revisionisti controrivoluzionari», che può ben attagliarsi alla polemica odierna sulla lotta alla mafia, intesa come guerra di religione. Il secondo è Antonio Gramsci e la sua teoria del partito come moderno Principe, che con la forza del leone e l’astuzia della volpe prende il potere anche nella circostanze più ostili e con i metodi più spicci. Nel pensiero politico- giudiziario del comunismo italiano la Sicilia ha una importanza centrale ; fu lo sbarco degli americani in Sicilia e la rapida conquista “alleata” dell’isola a determinare per molti storici marxisti il destino politico dell’Italia del dopoguerra. In sostanza, secondo questa tesi, senza il beneplacito di Cosa Nostra De Gasperi non avrebbe sconfitto Togliatti nel 1948 e la vittoria del Fronte Popolare sarebbe stata certa senza la mano della mafia, resa evidente fin dalla strage di Portella della Ginestra. E’ una tesi che per anni è rimasta chiusa nei circoli accademici o nelle sezioni di partito e che non ha mai trovato spazio politico, nonostante il movimentismo del Pci siciliano, che non esitò a schierasi con la destra pur di mettere in minoranza la Dc. Sconfitta sul piano elettorale, questa tesi è riemersa prepotente dopo la Strage di Capaci e la fine della Prima Repubblica ed è diventata da ipotesi storiografica un teorema giudiziario.

Il Principe sconfitto sul piano politico ha sferrato la sua offensiva in toga. La Mafia non è stata più considerata un fenomeno criminale, una evoluzione del banditismo rurale della Sicilia Occidentale, ma una forza politica. Non contava più punire l’omicida o l’estorsore in sé e neppure l’organizzazione che stava alle loro spalle; contava colpire l’ambiente culturale e politico che la contornava. Il politico di successo, il parroco popolare, il notabile apprezzato, pur immuni da reati, sono diventati allora il vero obiettivo.

Per colpirli è stato creato un corpo “ad hoc”, la Procura Antimafia, una sorta di Compagnia del Gesù dei magistrati, legata da uno speciale voto : colpire il potere che si era appoggiato sulla Mafia per comandare in Sicilia e quindi in Italia.

Si è scatenata una guerra, combattuta con mezzi apparentemente giudiziari, ma sostanzialmente diversi, sul modello di quella che il corpo militare, sotto spoglie religiose, dei Gesuiti combatté contro i Protestanti. Come i gesuiti sanno bene ( il Pm Di Matteo è allievo dell’Istituto Gonzaga, il loro liceo a Palermo) se vuoi prendere un popolo, fatti amico o colpisci il suo Re. Il Principe gramsciano in toga nera simil gesuitica s’é scatenato contro i politici votati nelle campagne agrigentine e nelle fiere colline della Val di Mazzara e ha messo a ferro e fuoco come fece il conte Wallenstein in Boemia loro veri o presunti accoliti dediti al banditismo e alla delinquenza.

Come tutte le guerre di religione, è una battaglia che non conosce pietà e non si ferma neppure di fronte ai vecchi e ai malati. Chi ha pietà di loro diventa un loro complice, un eretico “in nuce”. A questo punto compare il terzo personaggio: Michele Amari. In un Paese smemorato come il nostro è un nome dimenticato. Invece fu patriota e ministro dell’Italia del Risorgimento ma soprattutto storico acutissimo della Sicilia, la sua terra.

Amari seppe leggere la storia siciliana in modo allora inconsueto, valorizzando l’eredità, celata ma tenace, dei Mussulmani che la tennero e popolarono per lunghi secoli. Il suo nome sarebbe andato perduto se non lo avesse ricordato Leonardo Sciascia che con il suo lucido sguardo colse la fallacia delle battaglie dei Paladini di ieri e di oggi. Le giravolte, le ambiguità, l’indecifrabilità di alcuni comportamenti non sono frutto di congiure politiche o di complicità manifeste ( ah, l’araba fenice del concorso esterno in reato associativo...), ma sono la conseguenza di un’oppressione millenaria, di uno sradicamento mai sanato dalla propria matrice araba. Castelvetrano, Caltagirone, Agira e Corleone furono riempite di chiese e monasteri, attorniate di colonie lombarde e greco- albanesi; ma nel meriggio ancora fino a pochi anni fa sotto il sole splendevano come Medine. Nell’aria muta la nostalgia del richiamo alla preghiera dal Minareto.