Caro Direttore, sono un magistrato ordinario in pensione. Sono attento lettore de Il Dubbio anche in ragione della mia storia professionale. Ho fatto il giudice fino al luglio del 2000, quando, ad appena 60 anni, decisi di lasciare l’Ordine giudiziario per andare a cercare altrove lo spazio in cui meglio esercitare le mie pulsioni nel sociale. Ma sono rimasto sull’arena, fino al 2019, sotto la veste di avvocato cassazionista, dedito, tuttavia, più che alla libera attività forense (esercitata rare volte e sempre pro bono) a quella di tipo manageriale, in posizione di vertice in alcune rilevanti strutture pubbliche tra le quali l’allora Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma, l’ENAV SpA, e da ultimo, fino all’agosto del 2018, a titolo assolutamente gratuito, l’ATER Roma.Soltanto dopo lunga esitazione, ho infine deciso di portare all’attenzione pubblica, attraverso il Suo giornale, le molteplici falle che a mio avviso stanno per determinare l’esplosione del Corona virus nelle carceri italiane ed in tutte le altre strutture, pubbliche e private, nelle quali per ragioni istituzionali, sono obbligatoriamente riunite miriadi di persone. Mi riferisco, quindi, anche a tutti gli altri luoghi (ospedali, luoghi di cura, ospizi, conventi, seminari, RSA, accademie militari, convitti, caserme) la cui specificità non consente a quanti vi si trovano (costretti dai loro rispettivi ruoli, di amministrati e di amministratori, di sorvegliati e sorveglianti, a vivere gomito a gomito, in assoluta promiscuità) di potersene andare a casa, per esercitare da remoto il proprio ruolo. Sul fenomeno del sovraffollamento carcerario – in superamento delle violente proteste inizialmente espresse dai detenuti di alcuni istituti carcerari (e represse con modalità che hanno comportato la morte di diversi rivoltosi) e ad onta delle puntuali posizioni espresse al riguardo dal Cnf, da buona parte della magistratura di sorveglianza, ed anche dall’emerito Presidente emerito della Corte Costituzionale Professor Flick, già Ministro della Giustizia in anni per più versi bui - la voce più alta ed imperiosa finora udita appare soltanto quella di Papa Francesco. Ma finora, a parte l’incessante riproposizione, da più parti, della richiesta di ridurre il fenomeno del sovraffollamento carcerario attraverso la sostanziale liberazione di un gran numero dei reclusi, nessuno ha finora indicato quella che a mio avviso parrebbe la via maestra. Cioè lo smistamento di gran parte della popolazione carceraria nei numerosi spazi, sparsi in ogni parte d’Italia, isole e isolette comprese, dei quali l’amministrazione penitenziaria parrebbe essersi nel tempo spogliata e che oggi dovrebbe/potrebbe invece recuperare con un’azione rapida e incisiva. Allo scopo, appunto, di smistare in essi, senza celle a più letti, con ampia possibilità di movimento, tutte le persone che a vario titolo sono costrette a vivere l’una accanto alle altre, in obbligatoria contiguità. Accompagnato, tale esodo, da una profonda rivisitazione dell’intero sistema penitenziario, tra le cui pecche vi è anche quella di essersi privata di un proprio dedicato sistema di assistenza sanitaria in favore dei detenuti e degli internati. Siffatta missione, invece di essere potenziata ed estesa anche a favore della polizia penitenziaria, tuttora incomprensibilmente priva di propri medici competenti, venne stupidamente devoluta al Ssn e quindi alle aziende sanitarie locali nel cui ambito insiste ciascun Istituto, con inevitabili conseguenze negative. Non vi è più, ormai, una sanità penitenziaria interna, eguale in ogni Istituto carcerario, ma tante diverse sanità, affidate alla sensibilità, spesso carente, dei direttori generali delle tante aziende sanitarie locali nelle quali è suddivisa l’Italia, quasi tutti più attenti a curare buoni rapporti con il potere politico regionale da cui ciascuno di essi trae la propria legittimazione ad agire che a darsi da fare per rendere sempre più efficiente ed efficace l’azione complessiva delle loro aziende anche a vantaggio della popolazione carceraria. Non ho la veste per chiedere le dimissioni di chicchessia. E tuttavia mi sia consentito nutrire rilevanti perplessità sulle effettive capacità manageriali degli attuali vertici politici e amministrativi del sistema carcerario. Non conosco nè il Ministro della Giustizia nè il Capo del DAP. Conosco invece, personalmente, soltanto l’attuale direttore generale dei detenuti e del trattamento, chiamato a questo incarico soltanto da poco, già giudice di sorveglianza oltre che ex componente del Csm. Ma ho il timore, nonostante la sua assoluta bravura, che l’attuale contesto interno (e quello dell’intero governo) non saprà fornirgli il necessario sostegno. Ho lavorato nell’universo della Giustizia svolgendovi molteplici e non irrilevanti funzioni. Immediatamente giudiziarie quelle di Pubblico Ministero, di Giudice di sorveglianza, di Giudice d’appello penale. Di alta dirigenza amministrativa - negli anni di piombo e fino alla restaurazione del sistema del bastone e della carota attraverso la legge Gozzini, al quale mi opposi, nel 1983, con le mie volontarie dimissioni dall’incarico fino ad allora svolto e con il mio successivo rientro, poco dopo, in funzioni giudiziarie come Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano – come Direttore del Servizio sociale penitenziario e dell’assistenza ai detenuti, in breve della struttura centrale deputata al trattamento dei detenuti, dovunque ristretti.Venni così ad assicurare a tutta la popolazione carceraria (a fondamento del processo di rieducazione e nel contempo come strumento di maggiore ordine e sicurezza, volto a mettere al bando la violenza del manganello ed il prepotere dei capi bastone) la tutela dei loro fondamentali diritti allo studio, al lavoro, alla salute. Naturalmente accompagnato, tale processo, dall’avvio di un’estesa opera di formazione della polizia penitenziaria, purtroppo ancora insufficiente, come da tempo inutilmente rileva questa benemerita quanto misconosciuta categoria di operatori penitenziari in divisa.Credo da sempre nella rieducazione, a condizione che tutto il sistema vi creda, a partire proprio dal Personale della Polizia penitenziaria. Appare necessaria, insisto, una profonda rivisitazione del sistema sanitario in generale, ma anche della stessa organizzazione penitenziaria, volta a consentire che il personale del già Corpo degli Agenti di Custodia venga finalmente educato ad esercitare, con assoluta pienezza, il nuovo ruolo che ad essi spetta, di primi attori del processo di rieducazione dei detenuti e non più, come ancora oggi accade, di meri secondini. L’Amministrazione Penitenziaria ha saputo assicurare, nonostante quei tempi oscuri e sia pure con molteplici défaillances, il trattamento della popolazione carceraria, dando ampio riconoscimento al diritto allo studio, al lavoro, all’assistenza sanitaria, sia intramurale che extra murale, all’epoca organizzata in ben cinque Centri Clinici penitenziari super attrezzati, molto noto quello di Pisa. Che fine hanno fatto questi Centri? Chi ne ha tratto non consentito vantaggio? Qualcuno risponda!Grazie per l’attenzione. Luigi Trapazzo