«Il processo penale, essendo rivolto fin dalla fase delle indagini ad accertare la responsabilità personale, non può essere privato del fattore umano», afferma la pm Ilaria Perinu, in servizio presso il Dipartimento dei delitti di violenza sulla persona della Procura di Milano, intervenendo in un dibattito sollecitato sul punto dal Centro studi Rosario Livatino. Somenica la giunta dell’Anm ha proposto di rendere stabili nell’ordinamento alcune misure emergenziali per il contenimento del covid- 19 ed in vigore fino al prossimo 30 giugno. Ad esempio, «porre solo in capo al giudice la possibilità di disporre la comparizione personale del teste, sottraendola alle parti», come stigmatizzato in un duro comunicato dai presidenti dell’Unione nazionale Camere civili, Antonio De Notaristefani, e dell’Unione Camere penali, Gian Domenico Caiazza, secondo i quali si tratterebbe di una «rinuncia» alle garanzie costituzionali.

«Certo, alcuni atti d’indagine possono essere compiuti agevolmente da remoto», sottolinea la pm milanese, fra questi «il conferimento di consulenze tecniche, il decreto di acquisizione dei tabulati telefonici, le deleghe di indagine, la richiesta e il decreto di intercettazione, il decreto di perquisizione e sequestro, l’ordine di esibizione e acquisizione di documenti. Ma il processo penale effettuato attraverso collegamenti da remoto», ha ricordato la dottoressa Perinu, «esige una riflessione che coinvolge gli stessi principi costituzionali del giusto processo, il diritto di difesa, e la natura stessa dell’accertamento della responsabilità».

Il tema di fondo è se le tecnologie possano «assicurare la genuinità e veridicità delle attività svolte, se consentono al magistrato di cogliere le sfumature nelle risposte, il linguaggio del corpo. Come garantire - si domanda il magistrato - che la persona informata sui fatti e di cui si devono acquisire da remoto le dichiarazioni non subisca influenze proprio attraverso il device che gli permette il collegamento, o per esempio tramite il suo cellulare?».

La pm della Procura di Milano ricorda il caso della «acquisizione di dichiarazioni da parte delle persone offese nei procedimenti per reati di violenza: questo tipo di atto di indagine, per essere svolto proficuamente, richiede la creazione di un rapporto empatico tra l’intervistatore e la vittima e mal si presta a essere realizzato da remoto». Lo scenario, infatti, vedrebbe «il pubblico ministero in collegamento dal suo ufficio, la psicologa in collegamento dal suo studio, la persona offesa, specie se convivente con l’aggressore, che dovrebbe inevitabilmente collegarsi da un posto di polizia o dalla sede dei servizi sociali». Ma non solo. «L’interrogatorio dell’indagato sottoposto a misura cautelare che avviene da remoto con l’indagato in collegamento dal posto di polizia in presenza della polizia giudiziaria, e il difensore collegato dal suo studio professionale, garantisce pienamente il diritto di difesa? Garantisce che non siano utilizzati metodi e tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e valutare i fatti?», si chiede ancora la dottoressa Perinu.

Il rischio, conclude il pm milanese, è che «il processo penale da remoto diventi l’anticamera del processo celebrato dall’intelligenza artificiale».