Il problema non è quello di prevedere il futuro ma di comprenderlo quando arriva. E il futuro che sta arrivando non promette nulla di buono. Non si tratta di attivare qualche algoritmo predittivo ma di decifrare alcuni segni che già il presente ci mostra a piene mani. Proviamo a leggerli tutti insieme. Gli emendamenti approvati hanno ulteriormente chiarito, laddove ce ne fosse ancora bisogno, quali siano nell’emergenza-virus i soggetti processuali da tutelare e quali quelli da sacrificare, quali gli interessi da salvaguardare e quali i diritti e le garanzie del giusto processo di cui fare tranquillamente a meno. Quali indagini svolgere al sicuro e quali persone esporre invece al contagio. Con delle linee guida di tutela che valgono per il pubblico ministero, ma non per il detenuto in attesa di giudizio, con un’idea della sicurezza e delle garanzie anch’essa a intermittenza, che non valgono per chi sconta la pena in carcere, ma solo per chi la somministra. Un apparato emergenziale che ha fatto giustamente denunciare i rischi di un pericoloso e non reversibile smantellamento dei valori del processo penale. Secondo Eugenio Albamonte sarebbe tuttavia del tutto infondato “il retro pensiero in base al quale staremmo assistendo ad una riforma occulta del processo penale in chiave inquisitoria, destinata a diventare definitiva dopo l'emergenza corona virus”. Occorre tuttavia replicare in proposito come in verità l’uso in chiave recessiva ed autoritaria dello stato di emergenza è fenomeno tanto noto e tanto ovvio nei suoi sviluppi, nelle sue dinamiche e nelle sue giustificazioni politiche, culturali e psicologiche che non vale neppure la pena di soffermarcisi troppo. Quel che vale la pena di chiarire è che la storia delle riforme del processo penale in questi anni e la stessa propulsione antigarantista, autoritaria e carcero-centrica impressa alle riforme dal fenomeno populismo penale nel nostro Paese, hanno consentito in questi anni la strutturazione di un assetto politico-giudiziario (e direi anche culturale) che lascia intravedere con assoluta nettezza le linee di una stabilizzazione della legislazione dell’emergenza. Valga per tutte la orgogliosa rivendicazione del dottor Gratteri della primogenitura del progetto applicativo del processo a distanza. Ben venga, dunque, per i seguaci del mancato ministro e per questa linea di pensiero maggioritaria l’introduzione di un processo delocalizzato, sbrigativo, snello ed economico in linea con la fase recessiva attraversata dall’intero Paese, nel quale i giudici (ed ovviamente anche i giudici popolari) stanno nei loro uffici o nelle loro case, gli imputati nei loro domicili (o nelle carceri che li ospitano), e gli avvocati dove meglio credano, ma non a coltivare il processo con gli obsoleti strumenti del contraddittorio e dell’immediatezza. O a rivendicare il valore democratico della “pubblicità delle udienze”, principio che esce evidentemente disintegrato da questa modalità di fare (una volta si diceva “celebrare”) i processi. Affermare dunque che “l’irruzione delle nuove tecnologie telematiche nel processo penale” sia un “fenomeno certamente auspicabile per le sue potenzialità benefiche” come pure sostenuto da Eugenio Albamonte, significa guardare al problema in maniera decontestualizzata che non tiene conto delle reali linee di tensione che attraversano la nostra storia e la storia della politica giudiziaria del nostro Paese. Se non vi è dubbio, infatti, che la tecnologia applicata al processo (e da tempo da noi auspicata) possa avere effetti benefici, c’è tuttavia da chiedersi come mai nessuna delle virtù informatiche e telematiche offerte dal progresso sia mai stata applicata sino ad ora al processo penale a beneficio delle garanzie processuali. E c’è da domandarsi come mai ora quella tecnologia si ritorca invece, come lo scorpione della favola antica, interamente contro i presupposti stessi del processo inteso come dispositivo democratico, liberale e garantista. E ciò che ancor più preoccupa è che l’emergenza come sempre accade finisce con il trasformare la logica delle cose in un asfissiante “prendere o lasciare”, il cui risultato è proprio quello che lo stesso Albamonte descrive: l’assenza di una “approfondita valutazione che di sicuro oggi non è consentita”. Ed è proprio questo un punto fondamentale della questione. In una matura democrazia lo stato di necessità è infatti una ipotesi che certamente vale alla adozione di misure eccezionali, ma che deve anche essere l’occasione di un necessario patto fatto di chiarezza e di lealtà fra lo Stato e il cittadino, un patto che ha ad oggetto la dichiarata ma straordinaria sospensione di alcuni diritti e di alcune garanzie e l’assunzione dell’impegno ad una immediata chiusura di tale fase di deroga in coincidenza con la fine dell’emergenza. Ma questa rassicurazione di natura pattizia dovrebbe venire coralmente dal Parlamento e dal Governo, mentre neppure una parola è stata detta dal Ministro della Giustizia. Importante, ma non certo sufficiente, che venga da un pur autorevole esponente della magistratura. Non sono affatto convinto dunque che queste siano - come ritiene Eugenio Albamonte - soltanto “suggestioni del tutto destituite di fondamento” e che davvero si possa escludere che “norme come quelle che consentono la dislocazione del giudice in luogo diverso dall’aula o la partecipazione alla camera di consiglio in video conferenza possono essere in alcun modo transitate nel processo penale dopo l’emergenza”. Noi ricordiamo infatti che anche l’art. 146-bis delle norme d’attuazione introdusse negli anni novanta in via eccezionale emergenziale e temporanea il processo a distanza, mentre poi questa modalità si è stabilizzata nei processi di criminalità organizzata al di fuori quei contesti e la riforma Orlando, con la sola voce contraria dell’avvocatura, e non certo dell’Anm, ha pochi anni fa ulteriormente esteso l’utilizzo del dispositivo telematico al di fuori di ogni giudizio di pericolosità ed ogni istanza securitaria. Ed abbiamo visto una lunga parabola di controriforme che dagli anni novanta in poi hanno segnato il processo penale, piegando il modello accusatorio ed il giusto processo di volta in volta alle esigenze del fenomeno mafioso, poi di quello corruttivo e poi ancora a quelle dell’efficientismo, demolendo un pezzo per volta la strutture della legalità sostanziale e processuale che dovrebbero presidiare il processo. Distorcendo il processo penale in virtù di ipotetiche “percepite” esigenze securitarie, e piegando a tali presunte esigenze tutti i valori costituzionali del contraddittorio, del diritto di difesa, della presunzione di innocenza, della riservatezza delle comunicazioni, della ragionevole durata. Sappiamo bene che vi è una parte della “magistratura italiana che - come ricorda Albamonte - ha interiorizzato le garanzie processuali rendendole una componente imprescindibile della propria cultura”, ma non è quella parte che può orientare oggi lo strumento politico e che dovrebbe pertanto farsi carico di una emergenza democratica che invece stenta a vedere con sufficiente lungimiranza.  E vi è da fare infatti in proposito - approfittando di questa sonda cognitiva più sensibile che la crisi ci consegna - una ulteriore considerazione relativa alla qualità della stessa delle sorti della giurisdizione, sulle quali l’intera magistratura dovrebbe forse più attentamente riflettere. Ricordare cioè che un giudice che fa i processi a distanza e delibera in camere di consiglio con giudici popolari collocati ciascuno dove vuole, sulla base di testimonianze assunte da remoto, non solo sconvolge i “valori” del processo accusatorio, ma finisce con il polverizzare la “natura” stessa del processo in quanto tale. E quel giudice che non ha più interesse a coltivare la formazione della prova nel contraddittorio delle parti a contatto fisico con il testimone, così come quel giudice che pensa egli stesso di poter essere sostituito una due, tre, cento volte durante il processo, è un giudice che si delegittima da solo, che mortifica la giurisdizione ed il suo stesso ruolo sociale. C’è dunque da non stare affatto tranquilli nel vedere questo futuro che arriva perché, per quel che c’è da comprendere, non sarà un futuro che ci piace e che possa piacere alla nostra fragile e opportunista democrazia. È sulla base di queste non lontanissime esperienze che riteniamo che si debba levare una voce al tempo stessa dura ma responsabile e preoccupata per le sorti del processo penale. Ricordando che quel che accade alle garanzie del processo poi si riflette sull’assetto democratico dell’intero Paese. Ed è per tali ragioni che le valutazioni del dottor Albamonte ci paiono troppo generose ed è in base a questi elementi che riteniamo che le sue ottimistiche rassicurazioni non possano sostituirsi a quelle del Ministro e che non siano utili a contraddire invece quel main-stream che attraversa Governo e Parlamento e che in ossequio all’emergenza sta costruendo con il fango della propria incoerenza e della propria incultura un mostruoso e pericolosissimo Golem che una volta preso vita non sarà poi facile riaddomesticare. *direttore di “Diritto di Difesa”, la rivista dell’Unione Camere Penali Italiane