La televisione parlata, talkshow, è pure parlante? Cioè, dice cose costruttive agli spettatori oppure è soltanto spettacolo di parole, come pure il nome indicherebbe? La parola sembra prendere insopportabilmente il sopravvento senza comunicare contributi apprezzabili. Le trasmissioni politiche hanno invaso le reti nazionali. E impossibile non imbattervisi mattina, pomeriggio, sera, in prima e seconda serata. Talora sono una macina di chiacchiere seriose, talaltra fanno sorridere senza essere facete. Possono avere un che davanspettacolo, anche quando trattano con gravità affettata drammi reali, come il coronavirus, esibendo infettivologi, virologi, biologi, epidemiologi, e trasfor-mando accreditati scienziati in star da salotto loro malgrado, qualcuno purtroppo prestandosi. La gravità del tema dattualità ha, paradossalmente, enfatizzato certi difetti di tali trasmissioni per una regola dei fenomeni umani: La quantità degrada la qualità. Non è parso vero al conduttore navigato, avvezzo a spaccare in trentadue il ciuffo laccato di Conte, la barba ispida di Salvini, i radi peli di Zingaretti, quelli catramati di Berlusconi, le permanenti chiome di Meloni e Boschi; non è parso vero a codesto auriga lanciare il carro televisivo alla conquista dellalloro per la copertura h. 24 del dramma nazionale e globale. Sia chiaro, nel diluvio informativo le notizie sul coronavirus sono fatti. E i fatti sono la carne viva del vero giornalismo. Ebbene, hanno a che fare con i fatti quei poveri inviati sguinzagliati notte e giorno a catturare inutili, non dico false, notizie senza polpa né ossa; a rincorrere veri o presunti disgraziati per cavar loro unimpressione o un parere su dettagli insignificanti; a fungere da riempitivi delle dirette televisive? E difficile non provare fastidio nel constatare quanto certi celebrati conduttori si atteggino a competenti, mentre dichiarano che tutti ( sic!) dovremmo affidarci alla scienza, e sovrastino gli scienziati con appiccicaticce nozioni, interrompendoli pure sul più bello, lontani o vicini che siano. A chi ha maturato la convinzione che al conduttore ( giornalista o soubrette) non basti la guida della trasmissione ma pretenda pure di accreditarsi come vero conoscitore della materia, egli appare spesso pervaso da hybris qui intesa come eccesso confidenziale con il pubblico, come se, sentendosene superiore, volesse dominarlo piuttosto che informarlo. In tale accezione, la hybris dei conduttori televisivi, una sorta di sindrome professionale, viene facilmente mascherata nel dibattito politico, in cui ognuno può dire la sua in ogni senso e specialmente il conduttore può menar le danze al suono della sua musica. La discussione verte dove gli pare e piace. Ne presceglie i partecipanti, ne predispone i temi, ne regola glinterventi. Tutto questo ha poco più di una parvenza di esercizio della libertà di pensiero, in un duplice senso, luno più grave dellaltro: non solo la selezione dei partecipanti esclude determinate opinioni e correnti di pensiero ( censura indiretta), ma la continua presenza dei medesimi partecipanti avalla pure, reiterandole, le loro opinioni e dottrine, a prescidere dalla credibilità degli uni e dalla plausibilità delle altre. E dà noia, perché ripetitivo, ascoltare tutti i giorni le stesse cose dalle medesime trenta/ quaranta persone. Incomprensibili in astratto, ma comprensibilissimi in concreto, i motivi per i quali le reti ammanniscano a spettatori di bocca buona il pensiero dellintellighenzia presenzialista. Il sostanziale conformismo dei talkshow emerge imponente dai teatrali contrasti e dalla finta dialettica dei partecipanti, impegnati allo spasimo nel futile tiro alla fune tra conservatorismo e socialismo, variamente imbellettati, senza decampare mai dal comune seminato politico. Troppo spesso idee di seconda mano però sparse dalla stessa mano.