Caro Direttore “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni... Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago...” ( Bob Kennedy - Università del Kansas - 18 marzo del 1968).

Dopo decenni di crescita contraddittoria, squilibrata e instabile, condizionata da un’idea avida e materialista dell’economia, un’epidemia globale ci costringe a verificare che, misurando la ricchezza di un Paese solo in base fattori immediatamente tangibili, si finisce col fare scelte che ci lasciano sguarniti davanti ad un’emergenza sanitaria. Aver tagliato negli anni le spese della sanità, in ragione di un equilibrio da mantenere tra PIL e spesa pubblica oggi si rivela infatti una scelta improvvida.

Se negli scorsi decenni la misurazione del prodotto nazionale avesse tenuto conto anche di fattori immateriali, cioè dello sviluppo culturale, della tutela ambientale, della salute, del benessere delle persone e della società, contabilizzati, al contrario, come gravosi fattori di assorbimento del PIL, forse ora saremmo ben più attrezzati nella difesa della vita delle persone davanti alla minaccia del virus. E il paradosso è che il timore di inadeguatezza delle strutture sanitarie costringe a provvedimenti che distruggono proprio la ricchezza materiale. Borse, imprese manifatturiere e commerciali, società di trasporti, attività turistiche e ricreative sono travolte da un terremoto i cui effetti, per entità e rapidità, sono paragonabili a quelli di una guerra: i primi a soffrirne saranno i lavoratori ma stavolta non da soli. E risultano potenzialmente a rischio di essere travolte anche le relazioni sociali, i modelli di coesione e convivenza della gente. L’isolamento, la sospensione della mobilità, la chiusura dei luoghi di aggregazione, il distanziamento delle persone, determineranno, se protratti a lungo, effetti anche sul piano sociologico.

Nel frattempo le delocalizzazioni delle manifatture, scelte solo per abbattere il costo del lavoro, con il rallentamento dei traffici internazionali, lasciano sguarnite intere catene di produzione, dimostrando tutti i rischi di una globalizzazione dello sfruttamento, anziché dei diritti. Di avvisi, ne avevamo avuti molti altri, ma tutti minimizzati, perché riguardavano alcuni ma non tutti. Per esempio la crisi finanziaria che ha impoverito molti ma arricchito altri. Oppure la crisi ambientale, rinviata a problema delle generazioni future.

O le tante situazioni di crisi aziendali, per le quali ognuno pensa che sia sufficiente non trovarsi proprio lì...

Il coronavirus, invece, è universale. Nessuno può sentirsi al riparo anche se assistiamo a una deplorevole competizione tra Stati, o perfino tra regioni, ognuno nella speranza di “reggere” meglio degli altri, salvo poi accorgersi che stavolta siamo tutti sullo stesso gommone. E anche gli assalti ai supermercati altro non sono che gli ultimi disperati tentativi di ricercare soluzioni individuali in una società che, invece, potrà rinascere e risanarsi solo se saprà rivalutare le soluzioni che guardano al benessere collettivo.

La lezione della pandemia è questa e, mentre gli scienziati si affannano a trovare un antidoto al virus, il dovere della classe dirigente oggi è quello di assumerla come guida per rivedere i criteri di misurazione del PIL. Limitarsi a sforare il deficit per sostenere le spese necessarie a fronteggiare l’emergenza sarebbe sbagliato: occorre aprire una trattativa internazionale per la revisione degli indici di crescita economica e, su queste nuove basi, costruire la futura contabilità dei Paesi. Ora siamo certi che rivedere i fattori che compongono il prodotto delle nostre comunità consentirà di mantenere più forti e stabili anche gli elementi di crescita materiale a cui l’economia resta pur sempre legata.

* Segretario Confederale Cisl Responsabile politiche credito