Il caso Zaki desta notevole preoccupazione nell’opinione pubblica: l’Egitto, non da oggi, attua una feroce repressione dell’opposizione con ogni mezzo e il caso Regeni, ancora irrisolto, lo testimonia in pieno. In quale direzione può orientarsi l’impegno dell’Italia e dell’Europa, che ripudiano la guerra, che condannano la pena di morte, i trattamenti disumani e degradanti, che si pongono a difesa dello Stato di diritto? Ne parliamo con l’on. Giuliano Pisapia, europarlamentare membro della Commissione esteri e della sottocommissione per i diritti umani a Strasburgo.

On. Pisapia, qual è l’approccio – e, verrebbe da chiedersi, lo stato d’animo – della sottocommissione per i diritti umani del Parlamento europeo al caso Zaky?

In un mondo in cui le violazioni dei diritti umani sono purtroppo in continuo aumento, il ruolo della commissione esteri e della sottocommissione per i diritti umani del Parlamento Europeo è sensibilizzare l’opinione pubblica e la comunità internazionale anche su gravi casi specifici. È importante monitorare la politica estera europea affinché siano rispettati i principi e i valori dei Trattati fondativi. Per chi crede nella democrazia e nello stato di diritto è fondamentale impegnarsi senza tregua per il rispetto dei diritti umani, ovunque. In questi primi mesi di impegno a Bruxelles, ho preso atto del fatto che le risoluzioni e le condanne del Parlamento Europeo contro soprusi dei diritti umani sortiscono qualche effetto solo se accompagnate da azioni concrete sul piano commerciale e da minacce di riduzione degli aiuti economici. Certo, non sempre si raggiungono gli obiettivi auspicati ma non dobbiamo mai scoraggiarci. Alle sconfitte seguono spesso vittorie del diritto e dei diritti sulla violenza e sull’autoritarismo. Condizionando l’apertura del mercato comune europeo al rispetto dei diritti umani, l’UE riesce a proiettare a livello globale i valori su cui si fonda.

Per esempio?

L’Uzbekistan è un paese poco conosciuto e affetto dalla piaga del lavoro minorile forzato. Fra i primi produttori di cotone al mondo, l’Uzbekistan nel 2011 ha firmato un’intesa commerciale con l’UE, mercato fondamentale per le sue esportazioni. Il Parlamento Europeo si è rifiutato di ratificare l’accordo in attesa che il governo uzbeko collaborasse con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro e approvasse leggi contro il lavoro forzato e il lavoro minorile nelle piantagioni di cotone. Cinque anni dopo, l’agenzia ONU per il lavoro ha certificato la completa abolizione del lavoro minorile e un netto calo del lavoro forzato. In pochi mesi, è seguita la tanto agognata ratifica da parte del Parlamento Europeo che ha riconosciuto lo sforzo ratificando un accordo fondamentale per l’economia uzbeca.

Quali ritiene che possano essere gli effetti della vicenda di Zaki sulle relazioni tra Europa ed Egitto?

Purtroppo, temo che la vicenda non sortirà grandi effetti. La forza dell’Unione Europea è condizionata dalla sua unità e quando si tratta di paesi cruciali come l’Egitto, gli Stati membri commettono l’errore fatale di agire in solitaria. Tendiamo a dimenticare che la nostra rilevanza internazionale è molto limitata se raffrontata a quella dell’Ue che parla a nome delle 27 nazioni che la compongono. Tanto più che la politica commerciale, strumento sentito anche dai regimi più sordi, è materia di competenza esclusiva europea. I governi nazionali - si pensi alla grandeur francese- spesso credono che i singoli interessi strategici differiscano da quelli europei. Ma muovendoci in ordine sparso, siamo poco efficaci e screditiamo l’azione europea. L’UE è dotata di un’ottima rete diplomatica e della forza negoziale che discende dalla ricchezza del mercato unico. Sarebbe ora di metterle a frutto, abbandonando gli egoismi nazionalisti e cercando mediazioni alte con i nostri partner europei.

Questa vicenda contribuisce a tener alta l’attenzione sulla storia di Giulio Regeni. Il nostro Paese ha avuto pazienza, ma il caso non è stato risolto. Quali passi potrebbero contribuire a fare giustizia?

Serve un deciso cambio di rotta non solo diplomatico ma anche economico. I pozzi egiziani di gas naturale hanno importanza strategica? Sicuramente sì e sono oltre 130 le aziende italiane che hanno interessi in Egitto che si traducono in lavoro e fatturato in Italia. Ma i commerci e l’economia non possono prescindere dal rispetto dei diritti umani, dai valori della nostra Costituzione e dagli obiettivi di politica estera. Un peggioramento delle relazioni economiche con l’Egitto ha sicuramente un costo ma credo che sia arrivata l’ora di assumerselo. Nello scorso esercizio di bilancio, l’UE ha sostenuto lo sviluppo in Egitto con fondi per un totale di 1,3 miliardi di euro. Dovremmo rivedere queste cifre e lavorare di concerto con l’UE e i suoi Stati membri anche per fermare la vendita di armamenti.

Ritiene che la repressione attuata dall’Egitto rappresenti il sintomo di una regressione delle libertà democratiche al suo interno? Oppure che sia causata dall’estremo tentativo di un sistema politico di reggersi, a fronte di una accresciuta consapevolezza delle libertà democratiche da parte del popolo?

Sono convinto che l’attuale repressione in Egitto non abbia nulla a che fare con una regressione culturale interna. Non dimentichiamo che la cittadinanza egiziana si è resa protagonista di un grande sforzo democratico, animata dal desiderio di libertà durante la Primavera Araba. Credo invece che la causa della repressione sia imputabile all’ossessione di uomini violenti che esercitano il potere con la violenza e il disprezzo per lo stato di diritto.

Il caso Zaki è solo quello più conosciuto; in Egitto – e non solo – la repressione del dissenso avviene con il carcere e con mezzi anche crudeli. Preoccupa che anche gli avvocati e i magistrati siano a rischio, in contesti simili. In qualità di giurista, lei come commenterebbe questa situazione?

L’arresto di avvocati e magistrati è di estrema gravità e purtroppo comune a tanti paesi. Si pensi alla Turchia, all’Iran, alla Russia e alla Cina. Ma non è un problema che ci vede solo spettatori. Assistiamo all’estensione di questo fenomeno anche in Ungheria e Polonia, parte integrante dell’UE, ove è stata abolita l’indipendenza della magistratura, uno dei tre pilastri dei sistemi liberal democratici. Imbavagliare gli avvocati e asservire i magistrati cancella le basi della democrazia e apre le porte alle barbarie