Se c’è una cosa che abbiamo imparato dall’epidemia del Coronavirus è di non potersi fidare del Titolo V della Costituzione. Aver disarticolato lo Stato, privandolo di funzioni essenziali demandate alle Regioni, ed aver, al tempo stesso, introdotto in Costituzione un elenco di materie sulle quali c’è concorrenza tra Stato e Regioni, ha generato una confusione di ruoli e di poteri che, ben che vada, ingessa, paralizza azioni e decisioni sia dell’uno che delle altre. Condizioni rese ancor più gravi quando si è al cospetto di situazioni di emergenza come, appunto, è accaduto con lo sconosciuto virus venuto dalla Cina.

In una intervista al Corriere della Sera, l’igienista di fama mondiale, Walter Ricciardi, diventato consigliere dal ministro della Salute, Roberto Speranza, per le relazioni dell’Italia con gli organismi sanitari internazionali, dopo essere stato a lungo inascoltato dal governo circa le misure correttamente da assumere per arginare il contagio, ha chiaramente detto che “chi ha dato l’indicazione di fare i tamponi anche alle persone senza sintomi, gli asintomatici, ha sbagliato”. “La strategia del Veneto non è stata corretta perché ha derogato all’evidenza scientifica”, ha aggiunto lo scienziato. Ancora: "Le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità, riprese dall’ordinanza del ministro della Salute non sono state applicate". Risultato: tutto questo ha generato confusione ed allarme sociale.

Della crisi del regionalismo si parla spesso individuandone il fattore principale nella insufficiente attuazione del principio autonomistico e di decentramento iscritto nella Costituzione. Di qui la proposta sottoposta a suo tempo a referendum dalle regioni del Nord di una federalismo rafforzato e differenziato, anch’esso al centro di non poche discussioni tra opposti punti di vista. Il regionalismo italiano, dicono i sostenitori di questa tesi, è in crisi per difetto dell’attuazione legislativa, perché lo Stato accentra su di sé ancora troppe risorse, lasciando i territori sguarniti di fondi da gestire autonomamente.

Non ci si pone, al contrario, la domanda se la stessa idea di espandere il regionalismo non cozzi con la realtà dei fatti, con il dato di inadeguatezza delle stesse strutture regionali, i cui costi, peraltro, sono lievitati nel tempo, moltiplicando centri di spesa e accentuando la burocratizzazione del sistema. Non ci si chiede, in sostanza, se aver eliminato il vecchio centralismo statale non abbia favorito il nascere di un nuovo centralismo regionale. Anzi di venti centralismi regionali, quante sono le regioni italiane. Con venti politiche sanitarie e venti decisori diversi. Non ci siamo accorti che, in questo modo, abbiamo messo in piedi un Paese disarticolato.