C’erano una volta partiti con leader, più o meno carismatici. Adesso, invece, abbiamo leader senza partito. Una volta c’erano, da destra a sinistra, gli Almirante, i Malagodi, i De Gasperi, i La Malfa, i Saragat, i Nenni, i Togliatti. Che però dovevano vedersela con i rispettivi partiti. Tanto per non fare nomi e cognomi, Giorgio Almirante fu messo in minoranza dal Msi sul divorzio. Lui era contrario al referendum, per ragioni di principio e anche … sentimentali. Mentre il suo partito era favorevole. E gli toccò stare dalla stessa parte di Amintore Fanfani nella campagna referendaria. Così come poteva accadere che a un congresso di partito i militanti se le dessero di santa ragione. Le cose non andavano diversamente a sinistra. Certo, in omaggio al principio del centralismo democratico, la parola di Palmiro Togliatti era Vangelo. Con il risultato che base e vertice del partito dovevano starsene zitti e mosca. Però Randolfo Pacciardi e Ugo La Malfa nel Pri si comportarono come cane e gatto fin quando quest’ultimo si liberò del rivale. Pietro Nenni si vantava di considerare il suo partito uno sgabello sul quale salire per arringare le folle. Ma poi doveva scendere a patti con gli alti papaveri per evitare le solite scissioni. E anche Giuseppe Saragat, che pure si considerava non a torto una spanna al di sopra dei suoi compagni, ogni tanto era costretto a ingoiare qualche boccone amaro. Per non parlare di De Gasperi e soprattutto dei suoi successori, sempre costretti a vedersela con le varie correnti.

Insomma, anche allora la partitocrazia faceva il bello e il cattivo tempo. Pure all’interno delle varie parrocchie. Non a caso per un costituzionalista eminente come Giuseppe Maranini la partitocrazia era un tiranno senza volto. Ma, vivaddio, c’era circolazione delle idee. C’era dibattito. C’era dialettica più o meno manifesta. Da gran tempo in qua, invece, è tutta un’altra storia. Silvio Berlusconi ha fondato Forza Italia e per oltre un quarto di secolo ne è stato padre e padrone. E, uno dopo l’altro, tutti i suoi delfini o presunti tali hanno fatto una gran brutta fine. Alla resa dei conti, tonni finiti in pescheria. Nella Lega, prima Umberto Bossi e poi Matteo Salvini hanno dettato legge perché il successo genera consensi. Salvini, impulsivo com’è, ogni tanto è frenato da Giancarlo Giorgetti. Impeccabile nelle vesti del grillo parlante. Un Pinuccio Tatarella in salsa verde. Ma poi Salvini finisce sempre per fare di testa sua. Dimentico che il successo può dare alla testa. E Giorgia Meloni, con il vento in poppa, non la ferma più nessuno. Né dentro né fuori del suo partito. E, a quanto pare, il sesto senso femminile le è di grande aiuto.

In disinvoltura, però, Matteo Renzi batte tutti. Le sue giravolte sono uno spettacolo infinito. Dopo aver accusato Nicola Zingaretti e i notabili del suo vecchio partito di fare gli occhi di triglia a Luigi Di Maio, è stato lui a propiziarne l’intesa. Considera Giuseppe Conte un dilettante della politica, ma gli spalanca le porte di Palazzo Chigi a ragion veduta. Perché nel famoso discorso agostano al Senato Conte si è accreditato come l’Ammazzasalvini. Una sorta di assicurazione sulla vita. Il Gano di San Frediano, per dirla con una fortunata trasmissione radiofonica fiorentina degli anni Cinquanta, non ha pace e non ne dà. Da una parte lui, dall’altra il resto del mondo. E giorni fa ne ha fatta un’altra delle sue. Avvertendo al massimo solo la moglie Agnese, santa donna che ha la pazienza di Giobbe, se ne va bel bello a “Porta a Porta”. E, senza pensarci su due volte, rilancia la proposta dell’elezione diretta del presidente del Consiglio. Il sindaco d’Italia caro a Mariotto Segni. Un Ufo israeliano, associato alla proporzionale, che ha dato pessima prova.

Si dà il caso che il diavolo si nasconde nei dettagli. Ma lui non se ne cura più di tanto perché l’importante è vedere l’effetto che fanno le sue parole. Per sua disgrazia, si scontra con una vecchia conoscenza come il senatore democratico Dario Parrini. Un Pico della Mirandola che sa di storia e di diritto costituzionale, al quale nulla sfugge. Al suo ex segretario del Pd, Parrini sul Foglio gliele canta di santa ragione: «È una proposta poco comprensibile, sembra quasi improvvisata». Quasi? Macché. Perché Parrini, sulla base delle mozioni congressuali e altro ancora, conclude che quella di Renzi non è altro che un’invenzione buttata giù a caso. E ancora.

Ecco l’auspicio di un governo costituente. Magari presieduto da Mario Draghi, sulla scia di Giorgetti. O da Marta Cartabia, il numero uno della Corte costituzionale. All’insegna del melius abundare quam deficere. Ecco il no a Bonafede sulla prescrizione e il no al reddito di cittadinanza, infilando un dito nell’occhio ai pentastellati in decrescita infelice. Sì, invece, allo sblocco delle grandi opere. Tanto per fare una bella figura. Il tutto nel tentativo di togliersi di torno un pericoloso concorrente al centro come Conte. Dopo che quest’ultimo aveva incautamente dichiarato di non aver nessuna voglia di tornare all’insegnamento universitario e alla professione di avvocato. Ma, guardate un po’, di essere invece intenzionato a restare in politica. Con chi, per lui non ha la minima importanza. E l’Italia Viva? Un partito, caso più unico che raro, nato da gruppi parlamentari raccogliticci. A occhio e croce, una natura morta. Un insieme di inanimate belle statuine. Che in silenzio ammirano e temono il loro eroe, un funambolo che si esibisce senza rete. O la va o la spacca., dice lui. Ma è per l’appunto quello “spacca” che fa venire l’orticaria alle sullodate statuine. E potrebbe indurre qualcuna di loro, dopo la buriana del Coronavirus, a “responsabilizzarsi”. Per non finire a mare, come si dice a Napoli, con tutti i panni.