IL CASO DI MARIA TERESA ZAMPOGNA

Igiornali non si sono molto occupati della vicenda dell’avvocata Maria Teresa Zampogna, costretta ad abbandonare un comitato antimafia, in Lombardia, perché riconosciuta colpevole da una specie di tribunale del popolo guidato dal professor Nando Dalla Chiesa - di intelligenza con il nemico. Per nemico, ovviamente, si intende la mafia. Perché colpevole? Per la semplice ragione che, essendo una avvocata, ha assunto, nel corso della sua carriera, la difesa di molti imputati. Linciare un’avvocata in nome dell’antimafia è una bella cosa?

E alcuni di questi imputati erano accusati di reati di mafia. Il tribunale del popolo, sostenuto da una robusta campagna politica e di stampa - che ha visto congiungersi le forze del “ Fatto”, del “ Corriere”, di svariati altri giornali, dei sempre occhiuti Cinque Stelle e anche di un pezzo di Pd - ha svolto il seguente ragionamento: se una persona è imputata per un reato mafioso, ovviamente è mafiosa. Se qualcuno assume la sua difesa, evidentemente, in qualche modo è suo complice, o comunque la protegge. Il fatto che questa persona che assume la difesa di un mafioso ( il mafioso è mafioso: data la gravità del reato non esiste presunzione di innocenza) sia un avvocato, è un fatto del tutto secondario. E’ ora di smetterla con i privilegi per questa categoria, anzi, questa casta.

Del resto è stato un giurista celebre, come il Procuratore Gratteri ( che sfiorò l’incarico di ministro della giustizia), a teorizzare che le scrivanie di imputati e avvocati sono troppo strette. Cosa intendeva dire? Che gli avvocati sono degli azzeccagarbugli che spesso hanno poco a che fare con la giustizia e molto coi colpevoli.

L’avvocata Maria Teresa Zampogna, che era stata nominata in un comitato tecnico- scientifico della Regione - e aveva accettato di offrire gratuitamente il suo impegno per studiare il fenomeno mafioso e per mettere a disposizione la sua esperienza - si è trovata improvvisamente travolta da una polemica di dimensioni nazionali, e indicata come persona troppo vicina alla mafia per poter far parte di un comitato regionale. Il professor Dalla Chiesa, che presiede questo comitato, aveva lanciato il diktat: o lei o io. Annunciando le proprie dimissioni.

L’avvocata Zampogna ha protestato, poi ci ha pensato qualche giorno, assistendo, sgomenta, al linciaggio morale che aveva lei come bersaglio, e infine ha rinunciato all’incarico, mandando tutti a quel paese, seppure in modo molto cortese, con una lettera al Presidente della Regione.

Probabilmente non aveva scelta. Il diktat di Dalla Chiesa e poi l’aggressione mediatica l’avevano messa in una condizione nella quale le era impossibile lavorare con serenità. E l’avvocata di professione fa l’avvocata, non la politica, e se partecipa a un comitato partecipa come esperta e conoscitrice del fenomeno, non come “manganellatrice” incaricata di darle e prenderle in nome di qualche bandiera politica o di qualche interesse di parte. Se la si chiama a partecipare ad un’opera di studio, di approfondimento, di ricerca, è pronta a partecipare.

Giustamente, se invece la si chiama a una rissa, preferisce declinare.

C’è da dire però che la rinuncia dell’avvocata Zampogna, molto ben argomentata nella lunga lettera inviata alla Regione, nella quale ricostruisce nei dettagli tutta la vicenda ( che abbiamo raccontato nei giorni scorsi negli articoli di Giovanni M. Jacobazzi) non risolve il problema.

Qual è il problema: che in nome di non si sa bene quale etica, o piuttosto di quale cerimonialità antimafiosa, è stato compiuto un gesto di vera e propria sopraffazione. Non solo nei confronti di una persona, che non meritava questa sopraffazione. Ma nei confronti di una idea molto precisa e anche piuttosto “alta”: la necessità del diritto alla difesa. La richiesta di dichiarare inopportuna la presenza di un avvocato all’interno di un comitato antimafia può essere spiegata solamente con una concezione della giustizia che divide la giurisdizione in due campi: quello dentro il quale ci sono i magistrati ( Pm e giudici) e quello dove ci sono gli accusati ( imputati e difensori). Il campo dei buoni e quello dei reprobi.

Capite bene che questa idea è lontana anni luce non solo dal diritto moderno, ma da qualunque concetto di diritto si possa immaginare.

Qualunque. E’ un’idea che trasforma la giustizia in un luogo di battaglia politica, dentro il quale i giusti scovano, immobilizzano e poi puniscono i colpevoli o i sospetti. Spazzando via, in nome dell’etica e della propria superiorità morale, ogni ipotesi di democrazia.

E’ questa la società verso la quale vogliamo dirigerci?

Leggevo, proprio ieri, sul “ Fatto Quotidiano” un interessante articolo di Antonio Padellaro, che parlava dell’attuale situazione politica, del governo, della sinistra, e in un momento, forse, di pessimismo ( essendo stato il suo giornale tra i promotori di questo governo) richiamava un famosissimo verso di Eugenio Montale: «Codesto solo oggi possiam dirvi: quel che non siamo, quel che non vogliamo».

Ha ragione. Non so se citando questo verso Padellaro si sia ricordato di quando è stato scritto: nel 1923, in una poesia intitolata «Non chiederci la parola».

Una poesia piuttosto politica, creata giusto pochi mesi dopo la presa del potere di Mussolini. Mentre stava nascendo la dittatura e si stavano affievolendo le libertà. Montale ne prendeva atto, e chiedeva però, seppure con prudenza, di tenere vivo il dissenso.

Almeno il dissenso.

Ecco, oggi non credo che siamo a quel punto. E tuttavia ci sono dei temi su cui ormai le difese sono state abbandonate. Il dissenso, su quei temi, in politica è sparito. E uno di questi temi è proprio quello del diritto, e dei principi. Chi ha difeso l’avvocata Zampogna, oltre al partito che le aveva proposto l’incarico? Gli stessi avvocati: punto e basta. Tutto il resto dello schieramento politico, governativo e non, se ne è lavato le mani, o addirittura l’ha attaccata. La stampa ha fatto la stessa cosa. Gli intellettuali si sono disinteressati del problema.

Così la sopraffazione è stata possibile, e coloro che l’hanno immaginata e poi realizzata non sono stati chiamati a rispondere di niente. Nessuno gli ha chiesto: siete sicuro che la sopraffazione sia un buon metodo per fare antimafia?

Io mi rifugio nelle parole di Padellaro ( anche se, ovviamente, le strumentalizzo un po’, perché non si riferivano certo al tema dei diritti calpestati): almeno quel briciolo di dissenso salviamolo. Manteniamo il coraggio di dire quel che non siamo e che non vogliamo.

Anche noi giornalisti. Anche gli intellettuali. Anche qualche politico che prima di entrare in Parlamento aveva letto due o tre pagine di Beccaria...