«Bettino Craxi, che non sottovalutava la questione della responsabilità civile dei giudici, né il pericolo dello strapotere di una parte della magistratura, fu probabilmente condizionato in alcune sue scelte e sottoposto a pressioni che lo indussero a scegliere una linea morbida sul tema della responsabilizzazione dei magistrati…». Finì così la carriera politica di Agostino Viviani, con un blocco del potere giudiziario ( l’Anm di allora) che persuase l’allora leader socialista a ” liberarsi” di quell’avvocato scomodo e preparatissimo - perché Viviani era prima di tutto un avvocato - per evitare una guerra contro le toghe che sarebbe potuta finire male, molto male. Chissà se Craxi, anni dopo, pensò a quella resa dal suo esilio di Hammamet. Chissà se rimuginò di aver sbagliato a non resistere a quelle pressioni. Ma questa è un’altra storia.

Quella che oggi ci interessa è la vita di quell’avvocato: la notevole, affascinante e singolare vita di Agostino Viviani, l’uomo che da solo provò a scardinare il potere inviolabile dei giudici. Una battaglia che perse, naturalmente, ma che ha lasciato una traccia profonda nella storia del garantismo di questo paese.

Il nome di Agostino Viviani è riemerso tra il mainstream di questi giorni per il fatto di essere il nonno di Elly Schlein: prima delle elette in Emilia Romagna e nuova speranza della sinistra. Viviani fu partigiano, parlamentare, consigliere laico del Csm. Ma sopra ogni cosa fu avvocato. Perché fu da quella prospettiva, da quelle vesti che mosse tutte le altre attività. E quando fu eletto parlamentare col Psi, l’avvocato Viviani mise anima e corpo nella battaglia per le garanzie e i diritti. «Le vittime dell’ingiustizia sono sempre di più - spiegava nei suoi appassionati scritti - C’è bisogno di ricordarlo? Ed è tutta colpa delle indagini preliminari. L’accusa ha una sua ipotesi, niente affatto dimostrata e non sa fare altro che arrestare l’indagato e costringerlo a confessare» . Da onorevole divenne presidente della Commissione Giustizia del Senato e fu lì che iniziò la sua battaglia per limitare il potere dei giudici. Primo e unico firmatario della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, Viviani spiegava che «se accettato da tutti il principio che chi per dolo o per colpa produce un danno ingiusto è tenuto a risarcirlo ( art. 2043 c. c.) - stabilite le distinzioni tra colpa e dolo ( che sono limitate per i pubblici dipendenti e per alcune professioni al solo dolo o colpa grave) – la regola vale per tutti». E allora si domandava: «È concepibile che per il magistrato si faccia una eccezione e così mostruosa, da liberarlo dalla responsabilità civile in ogni caso, e cioè quando egli arrechi danno ingiusto per dolo o colpa grave?».

L’unico risultato che ottenne fu quello di non essere ricandidato in Parlamento. Così tornò alle sudate carte e alla sua toga da avvocato. Ma dal suo studio continuò a cercare e denunciare le falle e i soprusi che si consumavano nelle aule di giustizia. Memorabile l’intervista che rilasciò a Radio radicale nel febbraio dell’ 89, quando oramai la rottura col Psi era consumata e i giudici del pool milanese si preparavano a spazzare via la prima Repubblica. Ma la prima svolta autoritaria della magistratura, secondo Viviani, arriva con l’emergenza terrorismo: «E’ lì - spiegava - che il codice penale ha subito un ulteriore imbarbarimento. C’è chi ha abusato dell’emergenza per rendere meno liberale il già ultrarepressivo Codice Rocco». Viviani era invece convinto che anche l’emergenza terrorismo o, successivamente, l’emergenza mafiosa doveva necessariamente risolversi entro i limiti della Costituzione. Così non fu e in breve tempo l’emergenza divenne prassi consolidata: «La legge ce la facciamo noi - dicevano i magistrati - ed è inutile che invocate diritti e garanzie». TE proprio sulla scia dell’emergenza si consolidò la vecchia abitudine dei pm di interrogare gli “imputati” in qualità di testimoni. Abitudine sopravvissuta fino ai giorni nostri.

Una furbata - spiegava il vecchio avvocato Viviani - che consentiva ai pm di avere a disposizione l’imputato senza la presenza dell’avvocato, spogliandolo così dei diritti più elementari: «Perché se non c’è l’avvocato si può minacciare di ingabbiarlo». E quando, di fronte a questo arbitrio, Viviani e altri avvocati provarono a protestare, secca fu la risposta dell’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati, il quale spiegò che non c’era nulla di male e che lui stesso, in quindici e passa anni di onorata carriera da pm, lo aveva fatto più volte. E di fronte a questo abuso rinvendicato senza pudore, a Viviani non restava altro che alzare le mani: «Quando si arriva all’esaltazione della violazione della legge da parte di un pm, io mi chiedo: che ce ne facciamo dell’indipendenza della magistratura se questa indipendenza precipita nell’arbitrio?».

Poi la confessione della resa: «Nell’assistere a questi abusi nelle aule dove si cerca giustizia, io credevo di dover morire presto a causa del fegato ingrossato e dei dispiaceri nel veder quanta ingiustizia ci sia nel nostro paese. E invece sono ancora vivo e vegeto - e a dire il vero Viviani, che morì nel 2009, vivo lo sarà ancora a lungo - e allora mi sto lentamente convincendo che pur sicuro di perdere la nostra battaglia, essa può rappresentare una spinta, una speranza per incidere una traccia nel futuro». Insomma - concluse Viviani - «si fa per i nostri figli, per i nostri nipoti».

E una nipote che ha raccolto il suo testimone forse esiste. Si chiama Elly Schlein, una giovane donna che va dicendo in giro che vuol combattere ingiustizie, autoritarismi e abusi. Parole che sarebbero piaciute parecchio a suo nonno, l'avvocato Agostino Viviani.