Ci si può anche dividere. Ma si resta sempre accomunati dal «comune interesse al corretto funzionamento della giustizia». Il primo presidente della Suprema corte Giovanni Mammone offre un esempio. Anche rispetto alle prospettive di riforma del processo. Inizia nel ringraziare tutti coloro, non solo i magistrati ma anche «avvocati e personale della giustizia», che garantiscono una funzione cruciale per la democrazia. Conclude la sua relazione alla cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario 2020 con quella convinzione che tutti gli attori del sistema siano sollecitati dal comune obiettivo a «un impegno di sereno confronto e di reciproca collaborazione». Ma ecco, se è possibile, nel giorno in cui l’aula magna della Cassazione riunisce i protagonisti della giurisdizione, affermare con serena fiducia il valore della dialettica, allora anche i rilievi del primo presidente sulla «riforma della prescrizione» che secondo molti «prolungherà la durata dei processi» e che produrrebbe una «prevedibile crisi» per il «giudizio di legittimità», anche tale critica acquisisce un significato particolare. Forse con il vertice della Suprema corte si introduce per la prima volta, nel dibattito sulla prescrizione che lacera i partiti da mesi, un elemento di ragionevolezza da cui persino la politica non potrà prescindere.

Mammone è anche componente di diritto del Csm e non manca di soffermarsi sulla vicenda che lo ha scosso. Dell’organo di governo autonomo, avverte, «va salvaguardata l’immagine e l’integrità morale». Va riaffermato con forza «il ruolo fondamentale» che il Consiglio superiore «ricopre nell’assetto costituzionale». Anche «l’immagine di un tentativo strumentale di indirizzare l’attività consiliare a fini di parte ha non poco colpito l’opinione pubblica, e ha minato la fiducia che i magistrati stessi pongono nel corretto esercizio delle funzioni del loro organo di governo autonomo». Un ringraziamento, quindi, va al presidente della Repubblica Sergio Mattarella «per la saldezza e la determinazione con cui è intervenuto per ricondurre l’azione del Consiglio superiore alla normalità istituzionale» . Rispetto ai rischi che possono derivare dalle nuove norme sulla prescrizione, «è auspicabile che intervengano concrete misure legislative in grado di accelerare il processo, in quanto ferma è la convinzione che sia la conformazione stessa del giudizio penale a dilatare oltremodo i tempi», ricorda il primo presidente. Che però non pare affatto guardare a modifiche in grado di comprimere le garanzie, visto che auspica anche «misure acceleratorie non solo nella parte del processo successiva al primo grado, ora non più coperta dalla prescrizione, ma anche nelle fasi dell’indagine e dell’udienza preliminare, in cui si verificano le maggiori criticità che determinano la dispersione dei tempi» e, appunto, l’estinzione del reato per l’avvenuto decorso dei termini. In ogni caso si dovrà fare i conti con il rischio che la riforma prolunghi la durata dei procedimenti e procuri «ulteriore carico per la struttura giudiziaria, di modo che coloro che siano sottoposti a processo, dopo la sentenza di primo grado, potrebbero rimanere ancora per lungo tempo in questa condizione». E aggiunge che le stesse vittime del reato «vedrebbero prolungarsi i tempi della risposta di giustizia e del risarcimento del danno».

Una parte consistente della relazione di Mammone riguarda l’insieme dei rilievi statistici, sia generali che relativi alla Suprema corte. Se per quest’ultima c’è ora anche il rischio di «un incremento di 20- 25mila processi l’anno», pari al numero dei giudizi che si estinguono «per prescrizione in secondo grado», c’è un altro fattore che già adesso condiziona in maniera visibile il dato sulle pendenze, in particolare nel civile: si tratta del «travaso», davanti al giudice di legittimità, delle «impugnazioni in materia di protezione internazionale». Come ricorda il vertice della Suprema corte, «a seguito del decreto 13 del 2017, che ha reso il provvedimento» sulle richieste di asilo, «ricorribile solo per Cassazione», le impugnazioni in materia «prima diluite tra le Corti di appello, sono affluite tutte nella Suprema corte, e la hanno oltremodo gravata». Le sezioni civili, nel 2019, hanno visto «un aumento del 3,7% dei ricorsi iscritti, un contenuto aumento dell’ 1,86% dei procedimenti definiti e l’aumento del 5,4% della pendenza generale». Ma rispetto al 2014, nell’anno trascorso «i procedimenti pendenti sono aumentati del 16,1%», addirittura. Tutto dipende appunto da quei ricorsi per la protezione internazionale passati da «374 unità nel 2016» a ben «10.341 nel 2019».

In campo penale invece - almeno per ora - la tendenza è assai più incoraggiante. «La Corte di Cassazione», spiega il suo presidente, «con orgoglio può affermare che nell’anno 2019 i ricorsi penali sono stati decisi in un tempo medio di soli 167 giorni, 13 meno che nel 2018, e che pochissimi sono i casi di prescrizione maturati nel corso del giudizio di legittimità». Non solo c’è stato un calo delle «sopravvenienze» del 2,2% ma si è anche registrato «un positivo indice di ricambio che, anche nel 2019, si attesta sopra il 100%. Vuol dire che «per ogni 100 ricorsi iscritti in cancelleria penale, ne sono stati esauriti quasi 102».

Non si può prescindere dai numeri. Ma nella parte conclusiva dell’intervento in cui sintetizza la sua ampia relazione, il primo presidente ricorda che sì, «razionalizzazione e adeguamento dei metodi di lavoro stanno dunque inserendosi nella cultura stessa del decidere». Poi però ricorda: «L’incremento del numero delle decisioni non può costituire un obiettivo assoluto», perché «per la sua funzione primaria la Corte deve emanare pronunzie convincenti, che per motivazione e autorevolezza si impongano dinanzi ai giudici di merito e agli utenti della giustizia».