Chissà che cosa avrebbe da dire, di fronte all’esplosione esponenziale di cronaca nera nell’area foggiana, Federico Secondo di Svevia, imperatore della casata Hohenstaufen, quel “puer Apuliae” che tanto amo’ la terra di Capitanata dove il destino ( preannunciato dai suoi maghi, che lo mettevano in guardia da località con il “fiore” nel nome) stabilì che sarebbe morto. E a cinquantasei anni così fu: si spense in quel di Torremaggiore, a 37 chilometri da Foggia, nei pressi di un agro che nel 1250 faceva di nome “Castel Fiorentino”.

Federico, sensibile alle arti e curioso di tutto ciò di cui è fatta l’umanità, oltre all’orrore per lo sfregio alla terra amata, avrebbe forse avuto da muovere anche obiezioni estetiche sul modo del crimine, antropologicamente primitivo e quasi tribale. Perché la cosiddetta “quarta mafia” che riempie le aperture dei giornali, in allineamento ideale con la mafia siciliana, la ’ ndrangheta calabrese e la camorra campana, da ultima arrivata si propone come un modello di efferatezza più simile alle brutali derive omicidiarie della camorra arcaica piuttosto che alla letale criminalità dai guanti bianchi delle mafie tecnologiche e finanziarie di nuova generazione.

La terra di Foggia, che lo scorso anno conquistò il poco desiderabile record di provincia con il più alto numero di reati estorsivi in Italia, offre un panorama di stratificazione territoriale che porta a distinguere tre distinte tipologie di malavita organizzata: la mafia foggiana, che ha il suo epicentro nel capoluogo e si allarga al suo hinterland, la mafia garganica che opera nei territori di San Nicandro garganico e Apricena, e la mafia di Cerignola, che include i territori di Trinitapoli e San Ferdinando di Puglia. A parte, tra Foggia e San Nicandro, si ritaglia una sua autonoma fisionomia la malavita di San Severo, grosso borgo agricolo di oltre 50.000 abitanti, negli ultimi anni umiliato da ripetuti episodi di violenza criminale a scopo di rapina.

Il territorio, crocevia delle antiche culture sannitiche, molisane e daune, ha una forte radicazione nelle antropologie legate alla terra: all’agricoltura, prospera ancora oggi nell’immenso granaio del Tavoliere, e alla pastorizia. È questa la storica zona di transito degli armenti abruzzesi e molisani in transumanza. La “quarta mafia”, dunque, sociologicamente è nutrita da arcaismi tribali in cui legami di sangue e abigeato rinnovano una loro perversa attualità. Che, peraltro, erigono barriere tra la terra di Foggia e il resto della Puglia, proiettata verso livelli economici e traguardi sociali assai diversi per modernità e dinamismo.

Il clima da far- west che la malavita foggiana ha inflitto al territorio, ha creato una condizione di panico nella popolazione, abitata da un sentiment in cui angoscia e rabbia si combinano in una miscela esplosiva che non riesce a trovare sbocchi istituzionali convincenti. Peraltro il quadro occupazionale della provincia non è affatto incoraggiante, nonostante la grande tradizione del settore agro- industriale e la pur valida proposta turistica ed enogastronomica del Gargano e dei borghi del sub- appennino: come si fa a fare turismo sano e moderno nell’epicentro della mafia garganica?

Situazione irreversibile e dannata, dunque? Ovviamente no. Innanzitutto perché non siamo di fronte ad una organizzazione criminosa di impianto storico che trovi una forma di penetrazione sociale così come le tre mafie meridionali, che hanno offerto nel corso della loro ( ahimè) lunga presenza territoriale anche fenomeni di “patronage” criminale alle comunità, occupando lo spazio lasciato vuoto dallo Stato.

Siamo di fronte a bande di paese che stanno compiendo il balzo in avanti verso le pratiche estorsive organizzate e l’allargamento del business criminale verso attività più remunerative, come droga e prostituzione. Dunque è una struttura organizzativa ancora in coming, non consolidata come nelle altre tre mafie e, ciò che è più rilevante, che non trova alcun sostegno nel corpo sociale ( e nella politica, se non per episodi minori ed isolati). E non è cosa da poco.

Ma, per poter intervenire con qualche possibilità di successo, occorre innanzitutto prendere coscienza dell’esistenza del problema, senza rimuoverlo o derubricarlo a ingiuria minore. E poi è necessario richiudere il cerchio del circuito Stato- cittadini: il senso dell’abbandono, dell’estraneità, della lontananza, ricordiamolo, ha reso fecondo il terreno di coltura delle altre mafie, quelle “storiche”.

Alla politica nazionale e locale si chiederebbe meno inutile chiacchiericcio e più fattualità, soprattutto nel farsi facilitatrice per le occasioni di sviluppo, unico vero antitodo al degrado. C’è un detto, forgiato dagli stessi foggiani, che Federico II non ha conosciuto: tradotto dal dialetto dice più o meno “fuggi da Foggia, non per Foggia ma per i foggiani”. Ecco: compito della politica è proprio quello di frantumare questo letale aforisma.