Si comincia quasi in orario, alle 7 di sera. E all’inizio pare che non basti. Perché al vertice di maggioranza sulla prescrizione sembra levarsi puntuale anche la fumata nera. Bonafede si presenta come al solito irremovibile. Nonostante gli auspici del segretario dem Zingaretti, che ventiquattr’ore prima aveva chiesto almeno un «compromesso», sicuro che Giuseppe Conte lo avrebbe confezionato. E invece nel finale di partita arriva l’apertura sulla proposta di retroguardia, ma politicamente astuta, avanzata da uno dei partecipanti tecnicamente più preparati presenti alla riunione di Palazzo Chigi, il deputato di Leu Federico Conte: è sua l’ipotesi, pur subordinata ad altre più congrue, di limitare il blocca-prescrizione in vigore da Capodanno alle sole sentenze di condanna. Inizialmente il guardasigilli non lascia intravedere neppure tale minimo spiraglio. Resta irremovibile sull’intangibilità della norma che elimina la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, anche per chi è assolto. Respinge l’ennesima richiesta avanzata da Pd e Italia viva di introdurre una «norma di chiusura», per dirla con il sottosegretario dem Andrea Giorgis, che assicuri «comunque tempi certi ai processi». Neppure si affaccia, tra le carte di Bonafede, la possibilità di un’altra pur residuale contromisura sollecitata dal Pd: prevedere progressivi sconti di pena a chi fosse condannato in via definitiva dopo il trascorrere di un tempo eccessivo. Niente da fare. Invece, dopo che si è già consumata una prima ampia frazione del summit, è il presidente del Consiglio a dire che «tutti devono fare un sacrificio» e che è lui a mettere sul tavolo il lodo: «Limitiamo l’efficacia della nuova prescrizione alle sentenze di condanna, in modo che, se si è assolti in primo grado, i termini continuino a decorrere. Una rettifica che però dovrà essere accompagnata da due pilastri», prosegue Giuseppe Conte, «il primo riguarda la tutela degli interessi civili, per la parte lesa, qualora intervenga la prescrizione, il secondo è l’implementazione della riforma del processo penale, con tutti i meccanismi acceleratori che in parte abbiamo già condiviso». Ci si guarda negli occhi e si dice sì. Tutti d’accordo, a cominciare da Bonafede che parla di «maggioranza compatta» e del Pd, che già prefigura «il possibile arrivo della riforma penale in Consiglio dei ministri la prossima settimana», come anticipa Walter Verini. Tutti con due eccezioni: Pietro Grasso, che fa parte di Leu come Federico Conte ma che considera inopportuno il pur lieve cedimento del ministro, e dall’altro lato Italia viva, che parla di «tabù abbattuto» ma di passo avanti «non ancora sufficiente». In parte le discussioni a cui il presidente del Consiglio interviene con un successo diplomatico in extremis si consumano nell’orgogliosa maginot costruita dal guardasigilli con le statistiche: il numero dei processi prescritti dopo la sentenza di primo grado, insiste, è relativamente basso, riducibile addirittura ad appena il 3,5 per cento rispetto al totale dei giudizi penali. Ma è proprio sulla lente con cui guardare a un simile dato che il Partito democratico è in totale disaccordo con Bonafede. La delegazione del Nazareno, composta, oltre che da Giorgis e Verini, anche da Alfredo Bazoli e Franco Mirabelli, mette sul tavolo la seguente obiezione: «Premesso che con la riforma penale siamo pronti a condividere misure davvero acceleratorie dei procedimenti, il punto è che non è accettabile lasciare al loro destino di sventurati i magari rarissimi imputati tenuti per troppi anni sotto processo: è proprio per quei remoti casi che va assicurata una norma di civiltà». Niente. Fino all’over rule del premier che forse mette fine, una volta per tutte, alla telenovela. Si tratta, è evidente, di un compromesso al ribasso. Dal valore politico notevole, per la tenuta della maggioranza, ma assai problematico sul piano della legittimità costituzionale. Prevedere una conseguenza così aggravata, per il semplice fatto di aver riportato una condanna in primo grado, qual è l’inefficacia della prescrizione, viola con una certa evidenza la presunzione di non colpevolezza prevista all’articolo 27. Non a caso, persino Federico Conte, primo ad avanzare l’ipotesi già alla riunione del 19 dicembre, in un’intervista al Dubbio, aveva riconosciuto che con quella soluzione i profili di incostituzionalità si sarebbero solo «ridotti della metà», non certo annullati. Era evidentemente impossibile però che Bonafede e in generale i 5 Stelle, ieri rappresentati anche dal sottosegretario Ferraresi e dai capigruppo delle commissioni Giustizia, potessero concedere qualcosa di più di quanto emerso al vertice. Restano a questo punto lo spazio e la ragione per la battaglia referendaria prefigurata dall’avvocatura, e in particolare dall’Unione Camere penali. Si tratterà solo di capire se il compromesso di ieri sera basterà a dissuadere qualche partito, come Italia viva, dal sostenere anche organizzativamente la raccolta delle firme per i quesiti abrogativi.