Le misure cautelari? Inutili quando la gogna mediatica ha già trasformato gli indagati in mostri, rendendoli “infetti” agli occhi dell’opinione pubblica. Una conclusione che si trae leggendo le motivazioni con le quali il gip Luca Ramponi ha rimesso in libertà l’ex dirigente dei servizi sociali della val d’Enza, Federica Anghinolfi, e l’assistente sociale Francesco Monopoli, indagati nell’inchiesta “Angeli& Demoni”, per tutti, ormai, il caso Bibbiano.

Nel provvedimento, con il quale lo scorso 23 dicembre il giudice ha disposto l’interdizione per un anno dalla professione per i due, si legge come sia per il pm che ha chiesto la sostituzione delle misure evitando, così, la scadenza dei termini di fase - sia per il giudice non sussista più il pericolo di inquinamento delle prove, venendo meno, dunque, l’esigenza di tenere i due indagati ai domiciliari.

Ma è tra le righe del provvedimento, nel quale il gip rimarca comunque gli indizi di colpevolezza, che emerge tutto il potere della gogna mediatica subita da Anghinolfi e Monopoli assieme agli altri indagati: «concordemente con il pm - si legge - deve ritenersi che allo stato, proprio in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità», il pericolo di inquinamento probatorio «è andato via via scemando». Una conferma, dunque, dei devastanti contorni mediatici assunti dalla vicenda.

Ma la parte più pesante sta in un passaggio successivo del provvedimento, dove, appunto, la gogna mediatica assurge ad ulteriore e forse più efficace misura cautelare: «i contatti ( eventualmente di possibile riallaccio da parte degli indagati) con il mondo politico e ideologico di riferimento - scrive il gip -, proprio in ragione dell’ampio risalto negativo dato dai mass media alla vicenda, non avranno verosimilmente in concreto esiti negativi per la genuinità dell’acquisizione probatoria in un futuro giudizio, posto che il timore per la propria immagine pubblica che un appoggio diretto agli indagati comporterebbe ( se scoperto) costituirà un adeguato “cordone sanitario” più di qualsivoglia altra misura cautelare». Insomma, inutile preoccuparsi: accostarsi agli indagati, oggi, equivale ad una condanna a morte sociale.

Una sovraesposizione mediatica, commenta al Dubbio Oliviero Mazza, difensore di Anghinolfi, «che non è stata determinata dagli indagati, ma dall’autorità procedente». La richiesta di revoca da parte del pm, ora, rende impossibile la richiesta di giudizio immediato, per cui toccherà ancora attendere la chiusura delle indagini, per le quali il pm ha chiesto una proroga.

Il gip ha riportato nel provvedimento anche il cosiddetto «complotto della pedofilia», di cui gli investigatori hanno sentito parlare ascoltando le intercettazioni e dalla quale, ad avviso degli indagati, bisognava salvare i bambini. «Il gip ha rilevato - aggiunge Mazza - la preoccupazione seria, da parte dei due indagati, della presenza di una rete di pedofili operante sul territorio. Lo scenario iniziale parla di bambini sottratti per ragioni economiche alle loro famiglie, mentre da qui emerge che i servizi sociali avevano motivo di ritenere che ci fosse un rischio per questi minori. La verità di Bibbiano è ancora tutta da scrivere e il fatto che la corsa al giudizio immediato sia stata abbandonata la dice lunga».

«Si sta discutendo di diverse concezioni scientifiche sulla credibilità del minore - sottolinea Nicola Canestrini, difensore di Monopoli -. Abbiamo da una parte la comunità scientifica delle Carte di Noto, dall’altra esperti che non concordano ancora sul considerare le dichiarazioni dei minori sempre frutto di possibile inquinamento. Io credo che un problema del genere vada discusso seriamente, in uno Stato di diritto, dalla comunità scientifica, arrivando a delle linee guida condivise, altrimenti si trascina a processo chi la pensa diversamente, che diventa un mostro o un criminale. Non credo che in un tribunale si possano chiarire questioni scientifiche».

Il problema, evidenzia però il legale, è anche un altro. L’inchiesta contesta il fatto che i servizi sociali della Val d’Enza si servissero sempre degli stessi psicologi privati, per ovviare la carenza di professionisti in forza all’Asl. «Ma le procure di quali consulenti si servono? - si chiede il legale - Nel 90% dei casi degli stessi professionisti, o magari dei loro colleghi di studio con i quali si scambiano il ruolo dei periti negli stessi processi. Ho chiesto a varie procure, sulla scorta del Freedom act of information, gli elenchi dei consulenti tecnici scelti dall’accusa, peraltro pagati da tutti noi, e la percentuale di utilizzo. Ma mi sono stati negati, in virtù di ragioni di ordine pubblico e anche perché la scelta di un consulente tecnico è un’attività giurisdizionale. Non sapevo che un pubblico ministero facesse attività giurisdizionale. Ciò vuol dire che in Italia non è possibile conoscere i criteri con i quali vengono scelti i consulenti dell’accusa».