«La sveglia suona: è l’alba. Dal mare giunge un canto d’amore, da lontano il suono delle campane di Ventotene. Dalla “bocca di lupo” guardo il cielo, azzurro come non mai, senza una nuvola, e d’improvviso un soffio di vento mi investe, denso di profumo dei fiori sbocciati durante la notte. Ricado sul mio giaciglio. Acuto, doloroso, mi batte nelle vene il rimpianto della mia giovinezza che giorno per giorno, tra queste mura, si spegne. La volontà lotta contro il doloroso smarrimento. È un attimo: mi rialzo, mi getto l’acqua gelida sul viso. Lo smarrimento è vinto, la solita vita riprende: rifare il letto, pulire la cella, far ginnastica, leggere, studiare». È un passaggio di Sandro Pertini quando descrive la sua reclusione al carcere di Santo Stefano. Il futuro presidente della Repubblica italiana, fu ospite, suo malgrado, della cella n. 36, dal dicembre 1929 al dicembre 1930. A perenne memoria, all’ingresso principale del carcere, è stata affissa una lapide in marmo.

Le date di ingresso di Pertini si rilevano da due missive. La prima redatta sul treno Roma- Napoli 23 dicembre 1929 è scritta dallo stesso Pertini alla madre per comunicarle il suo trasferimento sull’isola. Da questa lettera si rilevano il genuino amore di un figlio per la propria madre, la tenacia di un ribelle, e la forza di un uomo indomito che ha creduto, combattuto e pagato caramente per i suoi ideali: «Mia buona mamma – scrive Pertini -, sono riuscito a procurarmi un pezzo di lapis e un po’ di carta e tento di scriverti nonostante questi maledetti ferri che mi stringono i polsi. Voglio che ti giungano i miei auguri per il nuovo anno, mamma, e farò di tutto perché a Napoli questa mia lettera sia imbucata. Sono qui solo in una piccola cella del vagone cellulare. Mi portano a Napoli e verso il 27 mi porteranno al reclusorio di S. Stefano. Mamma buona e santa, non ti rattristare per questa mia nuova sorte. Pensa, mamma, che lotto per un ideale sublime, tutta luce. Se tu sapessi con quale gioia, e con quanta fierezza io alzai dalla gabbia dopo la lettura della sentenza il grido della mia fede “Viva il Socialismo”, “Abbasso il fascismo”. E allora mi saltarono addosso furenti, turandomi la bocca quasi a soffocarmi, ma io nulla sentivo».

La seconda lettera, scritta da Andreina Costa Gavazzi, figlia di Anna Kuliscioff, a Filippo Turati, datata 23 dicembre 1930, riporta il trasferimento di Pertini a Turi, dove è testualmente detto: «... la presente per informarla, d’urgenza, che ricevo proprio ora dalla fidanzata del nostro Sandro la notizia che fino dal 10 corrente egli è stato trasferito alla Casa di pena di Turi ( provincia di Bari). È un reclusorio meno duro di Santo Stefano? Non ne so nulla...».

Anche Sandro Pertini, in un suo scritto, ha lasciato testimonianza della sua permanenza in Santo Stefano: «Non sapevo a cosa andavo incontro. S. Stefano era rimasto il vecchio carcere dei Borboni, con celle umide e malsane, e quando la guardia aprì la mia cella, con accento meridionale disse: “Qui dentro c’è stato Luigi Settembrini”. All’alba ci portavano un caffè acquoso e alle dieci il rancio che era una minestra di pasta e ceci o pasta e fagioli, che doveva bastare tutto il giorno».

Come scritto nel racconto di sabato scorso, il carcere di Santo Stefano venne realizzato nell’età dell’illuminismo, quando si era passati alla concezione dell’istituzione carceraria come centro del sistema penale. Un carcere adibito per gli ergastolani, dove, nonostante il secolo dei lumi, non si risparmiavano le pene corporali. Lo svolgersi delle interminabili giornate spesso era rotto dal crudele spettacolo delle punizioni a cui i condannati assistevano dalle grate delle finestre o dallo spioncino delle porte. In effetti, il regolamento interno, così come di qualsiasi altra prigione, prevedeva, oltre a piccoli premi per i condannati modello, anche dure punizioni per coloro i quali non si attenevano alle regole di condotta disciplinanti l’andamento della giornata. Accanto alle punizioni di carattere più leggero vigevano punizioni corporali che per la loro brutalità potevano anche portare alla tomba: cella oscura a pane e acqua, raddoppio delle catene alle caviglie e ai polsi, incatenamento al puntale ( anello murato nel pavimento), battiture in cella o all’aperto in presenza degli altri detenuti. L’ergastolo di Santo Stefano, inquadrabile sicuramente tra quelli a sistema durissimo, era un carcere senza speranze, dove l’ozio ed i vizi spadroneggiavano e dove la quotidianità dei reclusi era scandita dalla battitura delle grate alle finestre, dallo stridere dei cancelli, dalle bestemmie e maledizioni dei forzati rivolte nel nulla e dai lamenti di coloro i quali, insubordinati alle regole interne, erano bastonati al centro del cortile, quale monito per i compagni obbligati ad assistere al triste spettacolo come accennato, da dietro gli sportellini delle porte delle celle. Da quell’inferno gli ergastolani con fine pena mai, potevano uscire solamente in due modi: o da morti, oppure con una evasione. In realtà nemmeno da morti: le spoglie dei reclusi morti durante l’esecuzione della pena, venivano tumulate nel piccolo cimitero dell’isola.

La prima grossa evasione in massa fu attuata nel 1806 dal brigante “Fra Diavolo” di Itri ( il cui vero nome era Michele Pezza), che dopo l’evasione arruolò i detenuti tra le fila della sua banda per combattere a fianco dei Borboni, contro i Francesi. Questo episodio determinò la chiusura della prigione per undici anni. Solo nel 1817, per volontà del ministro Medici, i cancelli di Santo Stefano furono riaperti per ospitarvi sempre più detenuti politici e meno criminali. Altra evasione, solo programmata ma fallita nella sua realizzazione, fu quella ideata dal patriota Luigi Settembrini ed appoggiata all’esterno da Giuseppe Garibaldi, che sarebbe dovuta avvenire tra il 1855 ed il 1857. Settembrini fu recluso nel carcere di Santo Stefano agli inizi del 1851 e ne uscì agli inizi del 1859. Nella primavera del 1855 iniziò a programmare il proprio piano di fuga, da mettere in atto verso la fine dell’estate. Da un copioso scambio epistolare clandestino con sua moglie Raffaella, si apprende che lui stesso chiese collaborazione all’esterno per sé e per altri cinque compagni di cella, stabilendo man mano le modalità del piano di fuga, preparando addirittura delle piantine con i disegni dei luoghi e le rotte marinare da seguire. Dall’esterno Giuseppe Garibaldi partecipò attivamente al piano, tracciando su apposite carte nautiche la rotta che l’imbarcazione ( The Isle of Thanet), acquistata in Inghilterra dal rivoluzionario Antonio Panizzi con una sottoscrizione fra amici, avrebbe dovuto seguire per la riuscita dell’evasione. Il piano fallì in quanto l’imbarcazione naufragò ancora prima di giungere nel golfo di Gaeta. Fallì anche un secondo tentativo. Settembrini sarà infine liberato con un altro stratagemma messo in atto a bordo del piroscafo David Stewart nel mese di febbraio del 1859 durante il trasferimento, per il decretato esilio, suo e di altri sessantasei detenuti politici in Nord- America. Il comandante della nave, per paura di ventilati fastidi diplomatici internazionali, anziché dirigersi a New York, come concordato con le autorità, fece rotta verso l’Inghilterra dove sbarcarono liberi dopo qualche giorno.