Quasi nessuno ha sottolineato la coincidenza tra l’ottantatreesimo compleanno di papa Francesco e la pubblicazione da parte del Segretario di Stato vaticano del suo rescritto del 4 dicembre, del quale pure si è scritto molto, con il quale viene abolito il segreto di stato pontificio relativamente a denunce, processi e decisioni riguardanti i delitti citati nel primo articolo del recente motu proprio “Vos estis lux mundi”, e cioè: casi di violenza e di atti sessuali compiuti sotto minaccia o abuso di autorità; casi di abuso sui minori e su persone vulnerabili; casi di pedopornografia; casi di mancata denuncia e copertura degli abusatori da parte dei vescovi e dei superiori generali degli istituti religiosi.

L’atto non rappresenta in nessun modo una concessione a pressioni esterne sulla Chiesa o un’ammissione di incapacità nel reprimere con strumenti interni tale genere di reati, quanto invece un’ulteriore presa di distanza da quel “costantinismo” al quale papa Francesco è radicalmente contrario. La parola deriva dall’editto di Costantino del 313 che apriva la strada a una serie di provvedimenti che portarono a dotare la religione cristiana di uno statuto privilegiato all’interno dell’impero romano. Il pontificato di papa Francesco, a partire dal rifiuto della croce d’oro e dalla decisione di vivere negli spazi contenuti di Santa Marta, è stato teso a liberare la Chiesa dallo sfarzo eccessivo e da quel groviglio di rapporti con il potere politico che nel corso dei secoli si è andato creando attorno al suo apparato e che da sostegno della missione nel mondo si è trasformato in un grave ostacolo alla possibilità di agire liberamente e senza compromissioni nella società.

Il diritto di rifiutare la collaborazione con le autorità giudiziarie da parte della gerarchia ecclesiastica era ritenuto da alcuni una conquista, l’ottenimento di uno spazio di autonomia per la Chiesa insindacabile da parte del potere politico e dello stato laico. A loro una parte della Chiesa italiana si è peraltro rivolta, anche in anni non lontani recente, per chiedere quella tutela legislativa dei precetti di fede che per sua natura tende a produrre due risultati negativi: l’imposizione con la forza di ciò che andrebbe guadagnato con l’esempio e l’eccessiva contiguità, quando non la compromissione, delle strutture della Chiesa con quelle dei potentati esistenti nella società civile.

L’altra faccia di questa concezione del rapporto Chiesa Stato è stata rappresentata dai cosiddetti atei devoti, che pur non credenti cercavano nella prima un apparato sociologicamente stutturato al quale affidare il compito di stabilizzatore sociale e di garante delle tradizioni comunitarie. Che le chiese debbano inculturarsi, stabilendo un rapporto non superficiale con le comunità all’interno delle quali vivono è ormai dato per scontato e questo prevede una positiva e attiva partecipazione alla vita culturale dei popoli, ma secondo papa Francesco questo deve essere fatto senza propositi impositivi e soprattutto senza promiscuità con i vertici politici che li guidano. Perciò la decisione presa in tema di repressione penale da parte dei tribunali pubblici di reati a sfondo sessuale o della loro protezione da parte di ecclesiastici ha un valore anche programmatico, contribuisce al disegno di una Chiesa che rinuncia a tutele giuridiche improprie, o comunque compromissorie con il potere, per “alleggerirsi” e rivelarsi sempre più capace di compiere quel percorso di uscita verso la società e di avvicinamento ai poveri, ai marginali, agli ultimi e agli esclusi che rappresenta la sua vocazione irrinunciabile.

La coincidenza fra compleanno e pubblicazione del rescritto molto probabilmente vuol essere una sottolineatura del significato che papa Francesco intende dare alla decisione assunta, che per lui non è un cedimento ma la riaffermazione di un progetto dichiarato, parzialmente messo in atto e al cui sviluppo ulteriore non mancherà di impegnarsi.