Sino alla fine del 2011 non si erano avuti casi di dissesto degni di nota fra le aziende di credito italiane. Sul totale dei prestiti, le sofferenze nette ( le esposizioni verso debitori insolventi, corrette per le rettifiche di valore) erano contenute nel 2,9%, salite dall’ 1,4% nel 2007. A seguito della molto meno grave recessione del 1993, le sofferenze avevano sfiorato il 6% nel 1996.

La nuova recessione del 2012- 2013 si sommava agli strascichi della precedente nell’accrescere le sofferenze fino al picco del 4,8% degli impieghi toccato nel 2015. Ciò, a differenza di quanto era avvenuto dopo la recessione del 1993, allorché la ripresa dell’economia - moderata ma più rapida di quella recente- le aveva ricondotte prima del 2000 al di sotto del rapporto pre- crisi. Nello scorcio del 2017, sebbene in sicura discesa, erano ancora pari al 3,5%.

Per nove decimi le sofferenze emerse sono dovute alla crisi economica. Un numero ristretto di aziende di credito hanno ceduto, anche per incapacità, imprudenza, scorrettezza dei vertici. La misura è data dall’importo del sostegno pubblico a vario titolo dato nella crisi ai sistemi finanziari nazionali: in Italia 0,8% del Pil ( 13 miliardi di euro), nell’intera Euroarea 4,5% del Pil, sebbene gli shock recessivi sperimentati dall’economia italiana siano stati più gravi.

Eppure i casi di 7 banche di provincia medio- piccole in dissesto scatenavano una ridda d’interrogativi, valutazioni contrastanti, polemiche tali da disorientare l’opinione pubblica e far rischiare un crollo di fiducia nel sistema. Per 4 di quelle 7 banche, prima che scattasse il bail- in, il ricorso al fondo nazionale di risoluzione e al burden sharing ha evitato la liquidazione atomistica e salvaguardato i depositanti e gli obbligazionisti senior, mentre per le famiglie detentrici di obbligazioni subordinate sono stati poi previsti meccanismi di ristoro. Per la maggiore di quelle sette banche è stata possibile la ricapitalizzazione precauzionale.

Solo per le ultime 2 si è dovuto procedere alla liquidazione, ma secondo le regole italiane e con un sostegno pubblico volto a rendere ordinata l’uscita dal mercato.

Le polemiche e le critiche, spesso demagogiche, coinvolgevano tuttavia la Banca d’Italia. La Banca veniva chiamata a dimostrare di aver fatto tutto il possibile con gli strumenti offerti dalla normativa, italiana ed europea, stante l’invalicabile limite di non sostituirsi agli organi aziendali nella gestione dell’impresa bancaria. Via Nazionale documentava di aver intensificato la vigilanza cartolare, di stress testing, ispettiva, nella descritta condizione di estrema difficoltà, ciclica e strutturale, delle imprese affidate dalle banche.

Del migliaio di intermediari bancari e non bancari supervisionati dal 2007, la Banca d’Italia ne poneva in amministrazione straordinaria 75, per più di una metà risanati, e liquidando gli altri; nel 2016 ne ispezionava 200, sanzionando 372 soggetti con 45 provvedimenti; nel 2017 inviava alla magistratura oltre 1.400 segnalazioni, rispondendo a più di 5.000 richieste delle Procure.

Mentre le vicende economiche e finanziarie si susseguivano, la Banca d’Italia sollecitava da Governo e Parlamento gli indispensabili interventi di struttura, e nel proprio campo dava il suo apporto (...) Alla scadenza del mandato, il Governatore Visco veniva confermato dal Capo dello Stato Sergio Mattarella e dal Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.

La Commissione parlamentare d’inchiesta non precisava quali concrete azioni alternative, nel contesto dato, avrebbero evitato i fallimenti, al di là della migliore informativa agli investitori. Che è sempre opportuna per il risparmiatore poco consapevole, e compete alla Commissione nazionale sulle società e la borsa pretendere dagli emittenti passività finanziarie.

( Tratto da “La Banca d’Italia e l’economia - L’analisi dei governatori” volume V ed. Aragno)