Ho trovato di grande pregio l’analisi sviluppata da Angelo Panebianco sul Corriere. Partendo dalla probabile cancellazione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, anche nel caso di assoluzione piena dell’imputato, la studioso bolognese individua nell’allargamento progressivo e apparentemente inarrestabile del potere giudiziario il tratto caratteristico della trasformazione politica in corso nelle democrazie occidentali, che in Italia sarebbe in fase particolarmente avanzata. Più debole mi pare la conclusione, se così si può dire, che finisce con il responsabilizzare i giudici per la situazione che si è venuta a creare e per il suo progressivo aggravarsi, che in concreto arriva a mettere in discussione le fondamenta delle libertà borghesi, ancorché garantite dalla Costituzione.

Il fatto che essa stabilisca all’articolo 111 che “la legge assicura la ragionevole durata del processo” non sembra impensierire politici e giuristi che si sono sbracciati per bloccare le riforme proposte da Renzi, nella modalità legittima della modifica costituzionale e in molti casi molto meno incisive di quanto non sia la pura e semplice abolizione della prescrizione dopo il primo giudizio, non accompagnata dagli strumenti di correzione del processo promessi all’atto dell’approvazione della legge. Come sostenuto da quasi tutti i politologi classici infatti, quello giudiziario è il più debole dei poteri statuali, inferiore in efficacia sia al legislativo che all’esecutivo. Le leggi di proposta parlamentare approvate sono sempre di meno.

Nella concorrenza dei poteri sono con evidenza le componenti politiche a disporre degli strumenti di maggiore efficacia, potenzialmente utili a condizionare quella giudiziaria, che vive all’interno del sistema normativo disegnato dal parlamento, costretta dalla sua stessa natura ad agire con la tecnica del caso per caso e priva del controllo dei meccanismi base del potere statuale, dal tesoro agli esteri, dal lavoro alla fiscalità.

Se il peso sociale della magistratura aumenta e quello della politica diminuisce la responsabilità è per larga parte della seconda, che non riesce a darsi la legittimità sufficiente a esercitare la propria funzione in modo pieno. Nel sistema italiano del dopoguerra l’organizzazione del consenso era effettuata dai partiti politici, mentre i rapporti internazionali certificavano la loro legittimazione a dirigere la società, indirizzando le risorse e tenendo in equilibrio i comparti sociali.

Scomparsi i partiti di massa, crollata la partecipazione elettorale, cancellata ogni organizzazione del consenso non agganciata alle presenze televisive, più adatte a suscitare il dissenso violento e viscerale, fallito il tentativo di sviluppare nel web forme sostitutive di democrazia diretta, come dimostrato dai 27.273 votanti sulla questione decisiva della forma del rapporto tra M5S e Pd, la politica si dissolve e nel vuoto di potere viene surrogata dalla struttura pubblica di maggiore efficienza e credibilità presente nel Paese. Se la politica si ritrae, non gestisce le scelte che le sarebbero proprie, dal fine vita alla gestione della cittadinanza per gli immigrati, dalla tutela dei diritti fondamentali alla lotta alla criminalità, non riuscendo neppure a stabilizzare il sistema elettorale, non diciamo della riforma della giustizia, l’incapacità di realizzare la quale nonostante la maggioranza schiacciante che pure ha avuto spinge Berlusconi fuori dal novero degli statisti, è necessario che qualcun altro se ne occupi.

Meno funziona la democrazia, in qualunque modo la si voglia intendere, maggiore è la credibilità del sistema proposto da Platone nella Repubblica: affidare il potere ai filosofi. Come sceglierli? Ovviamente tramite concorso e per cooptazione, ossia nel modo nel quale sono selezionati, con serietà e rigore, i magistrati. In assenza di rivali competitivi nella capacità di guadagnarsi il consenso popolare, ossia di acquisirne a sufficienza per strappare loro qualche brandello di potere, è del tutto normale, e politicamente giusto, che siano loro a indirizzare le scelte principali del nostro paese e che a loro si ricorra per sopperire ad ogni emergenza. Pretendendo addirittura che facciano funzionare le acciaierie, che questo è il significato della frase di Di Maio “Porteremo in tribunale la ArcelorMittal”.