La vicenda del MES, ovvero la questione delle modifiche al Trattato sul Meccanismo europeo di stabilità ( European Stability Mechanism), presenta profili estremamente delicati. Di metodo, ancora prima che di merito. Ci poniamo il seguente interrogativo. Qual è il ruolo che, in una forma di governo parlamentare, deve essere riconosciuto al Parlamento rispetto all’operato del governo in materia di politica estera? Specialmente, in relazione come nel caso di specie - ad un Trattato che impatta in modo così incisivo sulla sovranità dello Stato? Quali sono gli obblighi informativi del Governo nei confronti del Parlamento durante le fasi di negoziazione? Qual è lo spazio di discussione per il Parlamento prima della fase della ratifica?

La legge 234 del 2012 contiene le disposizioni generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea. In base all’art. 4 di detta legge, prima dello svolgimento delle riunioni del Consiglio europeo, il governo illustra alle Camere la posizione che intende assumere, la quale tiene conto degli eventuali indirizzi dalle stesse formulati. Su richiesta dei competenti organi parlamentari, il governo riferisce prima di ogni riunione del Consiglio dell’Unione europea. Il governo informa, inoltre, i competenti organi parlamentari sulle risultanze delle riunioni del Consiglio europeo e del Consiglio dell’Unione europea, entro 15 giorni dallo svolgimento delle stesse.

Il Presidente del Consiglio Conte, nell’informativa urgente che ha reso di fronte alle Camere lo scorso 2 dicembre, ha dichiarato di aver puntualmente ottemperato a tali previsioni, informando regolarmente il Parlamento.

Vanno, però, segnalati due aspetti. In primo luogo, l’art. 4 della legge 234 del 2012 non copre eventuali negoziati informali che il governo tiene al di fuori delle riunioni del Consiglio europeo. In secondo luogo, anche con riferimento alle riunioni formali, l’ampiezza delle informazioni che il Governo condivide con le Camere è rimessa inevitabilmente alla discrezionalità dell’esecutivo, mancando strumenti giuridici che garantiscano una effettiva ( o comunque puntuale) giustiziabilità dell’art. 4. Molto dunque è legato alla forza politica del Parlamento nel far valere il rispetto, sostanziale e non meramente procedurale, degli obblighi di informazione.

Nel caso di specie, le informazioni, abbastanza generiche, che il governo ha condiviso in questi mesi in relazione al negoziato MES sono state inserite all’interno di un pacchetto ben più ampio il quale vedeva nella riforma del MES una sorta di “contropartita” rispetto ad altre, future, riforme sulla governance economica alla quale era interessata l’Italia ( in particolare il Fondo di risoluzione unico in ambito di Unione bancaria). Per inciso, ad oggi, solo il negoziato politico sul MES viene considerato “chiuso” dagli altri partner europei. Non invece il resto del “pacchetto”.

Ma c’è un terzo aspetto che può ulteriormente spiegare la mancanza di fluidità dell’informativa al Parlamento da parte del governo. Ed è l’art. 34 del Trattato MES che obbliga i Ministri coinvolti nei lavori dell’organo, al segreto professionale. Tale obbligo di segretezza non è, tuttavia, coerente con i principi fondanti il sistema parlamentare di governo: ovvero la responsabilità politica e giuridica dei Ministri di fronte al Parlamento. E che presuppone, ovviamente, la conoscibilità- controllabilità dell’operato del governo da parte del Parlamento.

Ciò determina - come opportunamente segnalato da A. Mangia, 6 dicembre 2019, in www. ilsussidiario. net - il “corto circuito” tra il piano internazionale e il piano costituzionale interno. Nei sistemi costituzionali a forma parlamentare - come il nostro - spetta al governo definire la politica estera, ma sulla base di precisi indirizzi delle Camere e sotto lo stretto controllo parlamentare. Ecco il pasticcio, che ha sollevato le reazioni delle forze politiche di opposizione, in particolare della Lega che per prima ha portato allo scoperto le varie aporie del MES, consentendo in tal modo ai cittadini, nel dibattito pubblico che si è aperto, di farsi un’idea su ciò che sta accadendo.

Certo, il governo non ha proceduto all’adozione del Trattato di riforma. Né avrebbe potuto. Ma se il negoziato politico in Europa fosse davvero chiuso, il Parlamento italiano potrebbe solo approvare o rigettare in blocco le proposte di modifica. La legge di autorizzazione alla ratifica è, infatti, una legge atipica. Non sottoponibile a referendum e, appunto, non emendabile in Parlamento. E, dunque, la risoluzione proposta in queste ore dalla maggioranza - con la quale si è stabilito, per il futuro e quale segno di discontinuità, il massimo coinvolgimento delle Camere in tutte le fasi concernenti il futuro dell’unione economica e monetaria e la conclusione della riforma del MES - potrebbe risultare, quantomeno per il MES, priva di reali effetti.

Allo stato dell’arte, si può realisticamente restituire una qualche forma di centralità e dignità al Parlamento italiano? Non è inutile richiamare, in proposito, l’esperienza tedesca. Nel 2012, a seguito di decine di ricorsi, il Tribunale costituzionale federale, con una storica sentenza, ammise la ratifica e la promulgazione del Trattato MES. Ma solo ad alcune precise condizioni. Tra le quali vi era quella per cui l’obbligo alla riservatezza non operasse per i Ministri tedeschi di fronte alle Camere.

Come dire, via libera al Trattato ma solo nella misura in cui la Germania potesse garantire un’interpretazione di esso tale da consentire al Parlamento completezza e adeguatezza delle informazioni necessarie alla formazione della volontà e alla conseguente assunzione di decisioni. La responsabilità di bilancio – dissero infatti i giudici tedeschi – è sempre del Parlamento nazionale, che non può essere ridotto a mero esecutore di decisioni assunte altrove. Con la conseguenza che dal 2012 in Germania, proprio a tutela delle prerogative del Parlamento, il Trattato si applica in modo diverso rispetto all’Italia: come a dire, un MES a “cogenza variabile”, nonostante gli espedienti ideati per sanare una situazione anomala.

Il che pare quantomeno incongruente perché, in virtù dell’art. 11 della nostra Costituzione, le limitazioni di sovranità sono ammesse solo “in condizioni di parità con gli altri Stati”. Sarebbe auspicabile che su tutti questi nodi, di metodo ( e ovviamente di merito), possa pronunciarsi e fare chiarezza anche da noi la Corte costituzionale.