“Permetti il dubbio”, esortava Bertold Brecht nel 1932, in una Europa ormai non più in grado di evitare il costo della credenza cieca nell’ingegneria teleologica ispirata da ideologie del bene comune.

Oggi, a valle di ondate di trasfor-mazione culturale e istituzionale, segnate profondamente dal lascito dei due conflitti mondiale, delle instabilità economiche che, a più riprese, hanno messo sotto scacco meccanismi di governance economica transnazionale aventi già al loro interno in nuce le ragioni di un’insoddisfacente capacità di prevenzione e risposta, delle innovazioni scientifiche e tecnologiche che hanno trasfigurato il nostro modo di vivere insieme, quel monito appare più come una desueta esclamazione che un attualissimo richiamo a non dimenticare una dimensione vitale dello Stato di diritto democratico, ancorché intangibile: il dubbio. Dinnanzi a assetti istituzionali che promettono, attraverso la certezza, la trasparenza, l’oggettività e la stabilità, la risposta ambita e sperata da società destrutturate e atomizzate, forse non vi è spazio per dubitare, se abbiamo dispositivi in grado di darci verità certe e indefettibili?

Non è cosi.

Non lo è in generale. Ma non lo è con particolare salienza nel mondo del diritto e della giustizia, dove, per riprendere parole mai svuotate del loro peso e della loro pertinenza, “è della dialettica che si nutre la fede nella giustizia”. Ragioni empiriche e ragioni normative spingono in una direzione esattamente opposta. Nondimeno quelle ragioni sono costrette a confrontarsi con le aspettative di verità velocemente elaborate, per potere preservare una allure di legittimità.

La tecnologia è un fatto di natura istituzionale, cosi come lo definirebbe John Searle: un accadimento, che si sostanzia attraverso un “accadere in un contesto”. E tuttavia non si tratta di un accadere qualunque. Il” fare” con la tecnologia nell’esercizio della giurisdizione implica introdurre una forma di ‘ dovere fare’ o ‘ non dovere fare’, una modalità di definire ciò che è accettabile che non dipende strettamente da criteri e principi di carattere giuridico, ne’ di carattere etico. Il “fare” con la tecnologia è un fare di qualità se la tecnologia è di qualità e se permette di rispondere a bisogni funzionali o cognitivi, come migliorare un calcolo, potenziare la capacità di risolvere un problema, ridurre tempi e costi del fare.

Ma se il fare con la tecnologia nella giurisdizione è un fare istituzionale cosa ci obbliga a guardare l’introduzione della tecnologia digitale e dell’intelligenza artificiale? A quella parte del fare istituzionale che non obbedisce ne può obbedire a criteri e principi dati ex ante al di fuori della giurisdizione. L’intelligenza artificiale ci obbliga a prendere sul serio ciò che la razionalità computazionale, definita ex ante, in modo a- contestuale non può darci: il valore legittimante che è esercitato dal dubitare dal poter mettere in discussione dal potere mettersi in discussione.

La legittimità del fare giurisdizione non si riduce, anche se può essere influenzata o potenziata ( d) al fare matematico. Quand’anche avessimo a disposizione tutti i dati di cui necessitiamo e ne avessimo tratto per finalità diagnostiche o predittive inferenze matematiche della più elevata attendibilità matematica, non avremmo ipso facto “fatto giurisdizione”.

Ciò che manca è una funzione cognitiva che si esercita sia a livello individuale sia a livello di sistema, nel rito. Ricordiamolo: l’avvocato che definisce una strategia difensiva deve porsi delle domande e dubitare, ovvero mettere in questione ciò che sta elaborando. Il giudice che definisce un procedimento, che valida una misura di limitazione delle libertà o che decide sul quantum della pena, esercita un dubbio interiore deontologicamente orientato e inquadrato nei termini delle categorie del diritto.

Ma nell’incontro fra parti ancor più il dubbio si esercita. Se non vi fosse, sarebbe legittimo sostituire al dispositivo costituzionale della giurisdizione un dispositivo capace di darci soluzioni certe e apodittiche. Di qui la necessità scientifica prima e istituzionale poi di riportare la tecnologia digitale e l’intelligenza artificiale nel mondo dei fatti istituzionali e quindi della governance. Se ne desume – come si illustra nel quarto e conclusivo paragrafo – che nella giustizia questo implica riportare al centro il tema del dubbio, della dialettica, del contraddittorio.

Old wine in a new bottle? Crediamo di no. Ma anche se cosi fosse, non sarebbe forse una testimonianza del fatto che il principio dello Stato di diritto puo’ confrontarsi con le innovazioni e gli imprevisti/ dibili della storia rafforzandosi attraverso una sua trasformazione? Mostrando cosi una legittimità evolutiva? In fondo, non c’è nulla che rafforzi un principio come l’estenderlo al di là delle situazioni nelle quali esse a avuto origine.

Vediamo in che modo il dubbio deve avere cittadinanza nel mondo della giurisdizione che integra strumenti di intelligenza artificiale. Molte diverse sfaccettature dell’intelligenza artificiale potrebbero essere richiamate ma una di queste ci appare come quella più pertinente nel contesto del diritto e della giustizia. Intelligenza è leggere fra le parti per vedervi una relazione, l’intelligenza è capacità di navigare le interdipendenze.

Come giustamente sottolinean Cass Sunstein la nostra vita sociale è oggi caratterizzata da problemi di navigabilità: come fare per avere idea di come se e con quali conseguenze risolvere i nostri problemi in un mondo dove il riflesso del nostro agire è così rapidamente riverberato dal tessuto del vivere collettivo che ogni gesto ha una eco amplificata su tutto senza che siamo capaci di leggere e tracciare tale riverbero?

Cosa ha tutto questo a che fare con la giurisdizione?

Moltissimo. Una persona ha un problema. Un problema sociale economico, un problema. Ne ignora i riflessi giuridici. Ignora in che modo il riflesso giuridico di quel problema e delle soluzioni che ad esso potrebbero essere date. Ma cerca una soluzione. Lo stato di diritto e la giurisdizione che ne invera ad ogni caso il senso costituisce il metodo per trovare una soluzione a quel problema è a tutti i problemi che sono simili a quello ma che nascono in altri contesti e che sono presentati da altri soggetti in modo tale da assicurare che la soluzione sia vissuta come accettabile equa e legittima anche per coloro ai quali il riflesso giuridico della soluzione è del problema sono o indifferenti o addirittura impattanti in senso negativo.

Insomma lo stato di diritto è il migliore metodo per affrontare e navigare le interdipendenze in modo compatibile con la equità e la legittimità. Navigare le interdipendenze. Non è forse questo che chiediamo oggi ai dispositivi matematici applicati ai big data? Così fa la giurisdizione ma sulla base di criteri che non possono che farsi azione legittimante in un contesto di interazioni fra parti guidate da un dubbio epistemico.

Le conseguenze di questo ragionamento sono tanto concrete quanto di urgente considerazione. Se etica e governance sono chiamate a definire i bilanciamenti checks and balances di una giurisdizione che integra ma non si esaurisce nella tecnologia informatica dell’intelligenza artificiale allora il CNF il CSM e il Ministero di giustizia e le istanze formative e deontologiche sono chiamati ad occupare lo spazio generato dal bisogno di una governance certa chiara prevedibile e rispondente a requisiti di garanzia costituzionale.

Non si tratta né di immaginare la sostituzione dell’avvocato né quella del giudice. Il robot giurisdizionale non è un fatto istituzionale, è una immagine che non corrisponde al potenziale di miglioramento che l’intelligenza artificiale apporta così come non risponde al metodo che connota e legittima l’esercizio della giurisdizione. Il dubitare con razionalità riflessiva in un contesto dialogico, dialettico, di confronto fra parti. L’esito è aperto, l’inizio incerto. Nel mezzo lo spazio può accogliere certezze matematiche, non riduzionismi computazionali.