Io, la strage, l’addio di mio padre La bomba che ci cambiò tutti
Io e l’Italia, insomma, andammo a dormire sereni, la sera dell’ 11 dicembre 1969. La mattina del 12 mio padre si svegliò sentendosi tutt’altro che bene
Cinquant’anni fa c’era l’Italia del 12 dicembre, come diceva Francesco De Gregori, e io me la ricordo bene. E ricordo anche quella dell’ 11 dicembre. Stesso anno, il 1969, stesso mese, ma un’altra Italia. Completamente diversa, in particolare per chi scrive. L’undici dicembre 1969 l’Italia era ancora un feudo dc relativamente tranquillo, quasi sonnacchioso.
Certo, il ’ 68 si era fatto sentire, ma non così tanto come nel resto d’Europa. Aveva prodotto un autunno molto caldo, questo sì, i sindacati avevano raccolto la fiaccola del movimento studentesco ed erano scesi in piazza per rinnovi contrattuali aspri, combattuti, qualche volta anche vinti con tenacia. Mariano Rumor, quintessenza del doroteismo, era saldamente alla guida di un governo con molto centro e poca sinistra. Al cinema noi ragazzi sognavamo l’America, quella libera e violenta di Easy Rider,.
I grandi invece acclamavamo Bobby Solo e Iva Zanicchi vincitori del Festival di Sanremo e sorridevano, divertiti e commossi dalla vincitrice dello Zecchino d’Oro che voleva a tutti i costi un gatto nero. Chi scrive aveva quindici anni, e le cose per lui andavano, tutto sommato, abbastanza bene, tra un sei in matematica strappato con le unghie e una caduta rovinosa col motorino nuovo.
Io e l’Italia, insomma, andammo a dormire sereni, la sera dell’ 11 dicembre 1969. La mattina del 12 mio padre si svegliò sentendosi tutt’altro che bene. Nel giro di un paio d’ore io, mia madre e i miei fratelli lo stavamo vegliando, attoniti, disteso senza vita nel letto matrimoniale, col cuore fermato per sempre da un attacco letale. L’Italia aveva invece ancora qualche ora per godersi la sua gioventù.
Diciamo fino alle 16.37, quando a Milano un boato terribile sconvolse e cambiò il corso delle cose dell’intero Paese. Una bomba micidiale, un buco enorme nel pavimento di una banca, a piazza Fontana, diciassette innocenti morti, più di cento feriti. Gli anarchici, i fascisti, i terroristi. Valpreda, Pinelli, il commissario Calabresi. Tanti morti, nei mesi a seguire, una pista di sangue che sembrava infinita.
I servizi segreti. I processi spossanti, estenuanti, infiniti. Una comunità stravolta, cambiata forse proprio perché non doveva cambiare, come nel Gattopardo. Nel giro di ventiquattr’ore, la Storia di tutti noi italiani aveva imboccato un’altra strada: accidentata, impervia, densa di misteri nuovi e dolorosi. E il destino aveva deciso che la mia, di strada, lo fosse il doppio.
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Cinquant’anni fa c’era l’Italia del 12 dicembre, come diceva Francesco De Gregori, e io me la ricordo bene. E ricordo anche quella dell’ 11 dicembre. Stesso anno, il 1969, stesso mese, ma un’altra Italia. Completamente diversa, in particolare per chi scrive. L’undici dicembre 1969 l’Italia era ancora un feudo dc relativamente tranquillo, quasi sonnacchioso.
Certo, il ’ 68 si era fatto sentire, ma non così tanto come nel resto d’Europa. Aveva prodotto un autunno molto caldo, questo sì, i sindacati avevano raccolto la fiaccola del movimento studentesco ed erano scesi in piazza per rinnovi contrattuali aspri, combattuti, qualche volta anche vinti con tenacia. Mariano Rumor, quintessenza del doroteismo, era saldamente alla guida di un governo con molto centro e poca sinistra. Al cinema noi ragazzi sognavamo l’America, quella libera e violenta di Easy Rider,.
I grandi invece acclamavamo Bobby Solo e Iva Zanicchi vincitori del Festival di Sanremo e sorridevano, divertiti e commossi dalla vincitrice dello Zecchino d’Oro che voleva a tutti i costi un gatto nero. Chi scrive aveva quindici anni, e le cose per lui andavano, tutto sommato, abbastanza bene, tra un sei in matematica strappato con le unghie e una caduta rovinosa col motorino nuovo.
Io e l’Italia, insomma, andammo a dormire sereni, la sera dell’ 11 dicembre 1969. La mattina del 12 mio padre si svegliò sentendosi tutt’altro che bene. Nel giro di un paio d’ore io, mia madre e i miei fratelli lo stavamo vegliando, attoniti, disteso senza vita nel letto matrimoniale, col cuore fermato per sempre da un attacco letale. L’Italia aveva invece ancora qualche ora per godersi la sua gioventù.
Diciamo fino alle 16.37, quando a Milano un boato terribile sconvolse e cambiò il corso delle cose dell’intero Paese. Una bomba micidiale, un buco enorme nel pavimento di una banca, a piazza Fontana, diciassette innocenti morti, più di cento feriti. Gli anarchici, i fascisti, i terroristi. Valpreda, Pinelli, il commissario Calabresi. Tanti morti, nei mesi a seguire, una pista di sangue che sembrava infinita.
I servizi segreti. I processi spossanti, estenuanti, infiniti. Una comunità stravolta, cambiata forse proprio perché non doveva cambiare, come nel Gattopardo. Nel giro di ventiquattr’ore, la Storia di tutti noi italiani aveva imboccato un’altra strada: accidentata, impervia, densa di misteri nuovi e dolorosi. E il destino aveva deciso che la mia, di strada, lo fosse il doppio.
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