Quella di Piazza Fontana non è solo la storia di una strage senza condanne e di indagini depistate, è anche il racconto di una vera e propria guerra tra magistrati che ha prodotto come unico risultato il mancato raggiungimento di una verità giudiziaria. Con grande soddisfazione dei responsabili. Un conflitto senza esclusione di colpi a cui Guido Salvini, giudice istruttore a Milano negli anni Novanta, dedica un intero capitolo de La maledizione di Piazza Fontana ( Chiarelettere).

Il magistrato milanese ripercorre, spiegando ogni passaggio con i documenti, la storia della sua inchiesta sulla strage finita improvvisamente nel mirino di alcuni colleghi e del mondo dell'informazione. L'accanimento vale a Salvini una lunghissima indagine per abuso d'ufficio, aperta dalla Procura di Venezia e archiviata sette anni dopo, e due procedimenti davanti al Csm, uno disciplinare e uno per incompatibilità ambientale, finiti entrambi nel nulla dopo un lungo calvario.

Ed è proprio all'organo di autogoverno che l'ex giudice istruttore muove alcune delle critiche più feroci. «Maccartismo giudiziario», «inquisizione del Csm», «tecnica intimidatoria del Csm», «il Csm falsifica gli atti di cui dispone». Sono solo una parte delle accuse mosse al Consiglio, considerato troppo prono nei confronti di alcune personalità di spicco della magistratura, un organo disposto a credere a qualsiasi accusa, senza verificarne la fondatezza, purché proveniente dalla “nobiltà togata”.

Perché contro le indagini di Salvini si sarebbero mosse alcune delle personalità più amate dall'opinione pubblica italiana. Come in un film, sfilano le immagini di Francesco Saverio Borrelli, Felice Casson, Gerardo D'Ambrosio e Grazia Pradella, volti normalmente associati alla lotta corruzione, all'eversione e alla criminalità organizzata, che nel libro assumono contorni diversi, molto più terreni. Tutti uniti a puntare l'indice contro il magistrato milanese, uno degli ultimi giudici istruttori rimasti in circolazione dopo la riforma Vassalli dell' 89.

La guerra, nella ricostruzione del magistrato, sarebbe scaturita da semplici invidie e gelosie tra toghe in merito alle indagini sulla Strage. In particolare, a non gradire il lavoro svolto da Salvini a Milano sarebbe stato l'allora sostituto procuratore di Venezia Felice Casson. Il pm veneziano è già molto noto all'opinione pubblica per aver scoperto l'esistenza di Gladio ed è da tempo convinto che l'organizzazione paramilitare abbia avuto un ruolo fondamentale nell'organizzazione dell'attentato.

Non solo, Casson vede la mano dei gladiatori anche dietro alla strage di Peteano che provocò la morte di tre carabinieri. Ma è una teoria smentita dalle indagini condotte dal giudice istruttore milanese, che individua invece la testa e la regia di chi ha piazzato l'esplosivo tra le cellule neonaziste venete di Ordine Nuovo. Uno smacco ulteriore per Casson, che in base a questo assunto, si sarebbe fatto sfuggire da sotto il naso i responsabili delle stragi. L'inchiesta di Salvini sta facendo progressi inattesi, grazie all'acquisizione di nuove prove e a testimonianze inedite come quelle di Vincenzo Vinciguerra e Carlo Digilio. Bisogna dunque trovare un modo di bloccare in fretta l'indagine per non spostare l'attenzione dai gladiatori. O almeno di questo è persuaso Salvini.

E l'incidente arriva. Nel 1995 Carlo Maria Maggi, capo ordinovista di Mestre e reggente per l'intero Triveneto è stato appena scarcerato dopo una lunga pena detentiva. Sa che i suoi ex camerati Digilio ( reo confesso per la strage di Piazza Fontana) e Martino Siciliano stanno collaborando e teme di essere tirato in ballo. E fa una mossa «apparentemente disperata» : scrive un esposto al ministro della Giustizia, Filippo Mancuso, in cui lamenta di essere stato sottoposto a pressioni dall'ufficiale del Ros Massimo Giraudo, stretto collaboratore del giudice istruttore, che nel corso di un colloquio investigativo lo avrebbe costretto a collaborare su mandato del magistrato milanese.

«Carta straccia. Se qualcuno non avesse un interesse personale a considerarla qualcosa di diverso», scrive Salvini. A dettare l'esposto a Maggi, dietro lauto compenso è Delfo Zorzi, latitante in Giappone, convinto che quel testo fosse la carta giusta per “uccidere” le indagini milanesi e scatenare la guerra tra inquirenti. E così è. A nulla vale nemmeno la testimonianza del figlio di Maggi, presente all’incontro con l’ufficiale del Ros, che definisce Giraudo «una persona affidabile, cortese, educata e con la ragione dalla sua parte».

La denuncia dell’ordinovista arriva a Venezia, tra le mani di Casson, è l'inizio della fine. Salvini è indagato dal collega veneto, la notizia finisce sulla prima pagina della Nuova Venezia, firmata da un cronista molto vicino al pm che ha aperto il fascicolo, e rimbalza su tutti i media nazionali. Il lavoro del giudice istruttore e della polizia giudiziaria viene ufficialmente delegittimato.

E non solo. Si interrompe ogni collaborazione con la Procura di Milano, capitanata da Francesco Saverio Borrelli, che si dissocia dai metodi salviniani. Grazia Pradella, la giovane sostituta che lo affianca nelle indagini, inizia un'altra guerra col giudice istruttore, con tanto di accuse davanti al Csm. Persino il sostituto procuratore Ferdinando Pomarici, ex collaboratore di Salvini, si scaglia contro le indagini su Piazza Fontana, definendole «illegittime» sul Corriere della Sera.

Borrelli si schiera con lui. Al fianco del magistrato si schierano “solo” i familiari delle vittime e il quotidiano Liberazione, l’unico a non credere al ritratto di un giudice depistatore.

Gli ordinovisti possono brindare, hanno raggiunto il loro scopo. «A Casson gli hanno tolto il pane di bocca di Gladio», diranno due ex ordinovisti intercettati. «Sei riuscito a metterli l'uno contro l'altro», esulta al telefono un amico di Maggi, riferendosi alla guerra scatenata tra magistrati.

Le indagini della Procura di Venezia su Salvini dureranno sette anni prima di essere definitivamente archiviate. E così i procedimenti davanti al Csm, avviati nel 1996. Una macchina inquisitoria basata su documentazioni mai verificate, in alcuni casi rivelatisi veri e propri falsi.

«Poi, a tempo scaduto, le accuse cadono una a una», scrive Salvini. «Ma è come consentire a un giocatore di rientrare in campo quando l’arbitro ha già fischiato il fine partita e le squadre sono negli spogliatoi». Le indagini su Piazza Fontana sono ormai compromesse.