Non c’erano prove del suo collegamento con i trafficanti della tratta che dalla Nigeria portava donne a Perugia, dove venivano vendute come merce umana sul mercato della prostituzione. Ma nonostante questo Unity Edokpor, nigeriano 23enne, è rimasto in carcere 765 giorni, vedendosi negare ogni richiesta di scarcerazione. Fino all’assoluzione, pronunciata lo scorso 14 novembre per non aver commesso il fatto. Giorni passati senza ricevere alcuna visita o aiuto dall’esterno, il tutto per uno scambio di persona.

La storia, raccontata dal legale del giovane, Rolando Iorio, riguarda una brutta vicenda di sfruttamento, che nel 2017 ha fatto finire in carcere otto persone, tra le quali il 23enne. Colpevole, probabilmente, soltanto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, ovvero nell’appartamento nel quale gli uomini della Questura hanno fatto irruzione, arrestato coloro che da tempo venivano tenuti sotto controllo.

Tutto inizia nel 2016, con la denuncia di una minorenne, arrivata in Questura coperta dai segni della violenza, dopo essersi ribellata ai soprusi della banda che teneva lei e altre ragazze sotto scacco, costringendole alla prostituzione per riscattare il prezzo del viaggio dalla Nigeria all’Italia. La giovane racconta di essere stata rapinata e costretta a rapporti sessuali a pagamento da una sua connazionale e dal fratello. Da quella denuncia partono le indagini, basate sulle intercettazioni di quattro persone, finite in carcere nel 2017 insieme ad Unity.

Dalle investigazioni emerge uno spaccato inquietante: le giovani, reclutate nei villaggi in Nigeria, vengono convinte a partire, con la promessa di un futuro migliore in Italia. L’organizzazione si offre di provvedere al pagamento di tutte le spese del viaggio, promettendo un lavoro onesto, una volta arrivate nella Penisola, con il quale riscattare il prezzo del biglietto. Un accordo siglato anche con macabri riti vodoo. Dalla Nigeria le donne passano per la Libia, dove stazionano all’interno di ghetti, in prossimità dei luoghi di partenza, subendo violenze di ogni genere prima di poter partire a bordo di zattere di fortuna. Un inferno che continua anche in Italia, dove vengono costrette a prostituirsi per pagare il proprio debito.

«Queste ragazze - spiega Iorio partivano con un numero scritto su un biglietto, al quale comunicare il loro arrivo in Italia». Una volta spostate nei vari centri d’accoglienza, i membri della banda si occupano dunque di “recuperarle”, per portarle poi a Perugia, città base dell’organizzazione. E tra coloro incaricati a prelevare le donne dai centri del Sud Italia, secondo la tesi d’accusa, ci sarebbe anche Unity.

«Oltre a far parte dell’associazione - racconta l’avvocato - secondo i pm il mio assistito si sarebbe occupato anche di acquistare i medicinali che servivano per fare abortire, tra atroci dolori, le donne sfruttate dalla banda». Ma come finisce in carcere Unity? «La procura gli attribuiva due telefonini - spiega Iorio -. Da uno di questi, in tasca al momento dell’arresto, non emergevano contatti con gli altri associati. L’altro, invece, che era stato intercettato nel corso delle indagini, non è mai stato rintracciato e non apparteneva a lui. Si trattava di un telefono “bollente”, perché in cuffia gli inquirenti avevano sentito parlare di ragazze e trasferimenti».

Cosa c’entra, dunque, il giovane? Il nome associato a quel telefonino è “Abyad”, ovvero bianco, soprannome del 23enne, per via della sua carnagione particolarmente chiara. «Un soprannome abbastanza generico - commenta l’avvocato -, ma non è questo l’unico punto. Grazie ad una perizia fonica, infatti, sono riuscito a dimostrare che la voce intercettata, erroneamente attribuita a lui, in realtà apparteneva ad altra persona. Ma le intercettazioni sono state problematiche in generale: diverse sono risultate attribuite alle persone sbagliate e ci sono stati anche problemi con il particolare dialetto parlato dagli imputati, tant’è che l’interprete non riusciva a comprenderlo bene e ciò ha richiesto la nomina di altri periti».

Nel corso del processo il legale ha richiesto l’audizione della giovane che ha fatto partire le indagini, la quale, però, non si è mai presentata in aula. Il pm ha chiesto una pena pesante per Unity: 13 anni, sulla base anche di «alcune intercettazioni che non sono mai finite nel fascicolo del dibattimento». Ma per il 23enne è arrivata l’assoluzione, in un processo che si è concluso con pene dai 7 ai 14 anni di carcere, a seconda dei ruoli rivestiti all’interno dell’associazione. «Questo giovane, che è arrivato in Italia da incensurato, si è visto negare ogni richiesta di scarcerazione, senza motivo. Ora, grazie all’assoluzione - conclude il legale - è libero. Il lato positivo di questa brutta storia è che dopo aver saputo del suo dramma in molti gli hanno già offerto un lavoro. E ora sta mettendo a posto i documenti» .