Ma perché Mario Monti mise in dubbio che l’Italia ce l’avrebbe fatta a entrare nell’euro?, chiede ( anche un po’ retoricamente) Vincenzo Visco che da ministro delle Finanze lavorò serratamente a fianco di Ciampi durante tutta quella complessa e difficile stagione, mentre Romano Prodi ascolta e se la ride sotto i baffi rio Grilli, che al Tesoro affiancava Mario Draghi nche non ha. Poco più in là Vittoella pattuglia dei più stretti collaboratori di Ciampi, e che in quei mesi si fece scaramanticamente crescere la barba (“me la taglierò solo il giorno in cui ce l’avremo fatta”, disse all’epoca) ammette che sì, l’ipotesi della “gradualità”, l’entrare nell’Unione monetaria solo in un secondo momento, era stata presa in considerazione, fosse solo come possibilità tecnica: lui e Draghi ne discussero con Ciampi ma “dopo il vertice di Valencia e le parole di Aznar fu chiaro che dovevamo tentare tutto e subito”. Qual è la storia, quanti inciampi e possibili trappole dovessero essere disinnescate, dentro e fuori i confini nazionali, per vedere infine realizzato il grande e all’epoca temerario progetto, proprio a partire da Aznar che si premurò di dire via Financial Times che era stata la Spagna a convincere l’Italia -“una balla clamorosa” dice oggi senza mezzi termini Prodi”- lo vedremo più avanti.

Ma intanto occorre ricordare che quella domanda, riusciremo a entrare nella moneta unica, e a entrarvi dalla porta principale, nella pattuglia di testa dell’Unione, riusciremo ad essere tra i Paesi che determineranno l’Europa e i nuovi equilibri non solo monetari nel mondo, se la ponevano tutti, in quella primavera- estate del 1996 che sembra lontanissima e invece dispiega i suoi benefici effetti anche oggi. Per Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo che portò per mano l’Italia a rientrare nello SME a quota di cambio 990, attuando un risanamento dei conti pubblici di clamorosa rapidità - precondizione per l’accesso all’eurozona- fu subito chiaro lo scopo nazionale, e si può dire anche patriottico perché si tratta proprio della stessa personalità che trasse la parola dall’oblio della vocaboliera politica: “Si trattava di spezzare il machiavello, il circolo vizioso inflazione- svalutazione- sfiducia, e quindi tassi di interesse elevati, che aveva tenuto l’Italia sull’orlo dell’abisso finanziario”. Si trattava di mettere il Paese al riparo: dove è ancora oggi, tanto che nella crisi dei debiti sovrani iniziata oltre dieci anni fa ci siamo potuti difendere e salvare.

Mettere al riparo l’Italia dall’abisso era il rovello di Ciampi, il motivo per il quale accettò di far parte da ministro del Tesoro del primo governo Prodi, dopo esser stato liquidato come presidente del Consiglio dai partiti che lo avevano sostenuto in Parlamento per tutto il 1993 alla stregua di un “governo amico”. Ma il compito che si era dato era, e fu, assai arduo. Nessuno, nella pubblica opinione, e quel che è peggio nei partiti e tra gli opinion leader che anzi ingaggiarono una quotidiana battaglia di scetticismo e anche semplici malevolenze, credeva davvero che l’obiettivo sarebbe stato centrato.

Racconta Romano Prodi che “quando, dopo le elezioni del 1996, gli chiesi di diventare ministro ero molto dubbioso che mi dicesse di sì, ma in lui prevalse il senso di patria. Fu però subito molto schietto: accetto solo a due condizioni, avere l’euro come missione, e un ruolo da ministro tecnico, fuori dalle beghe dei partiti e con un rapporto diretto col presidente del Consiglio”. La sfida non era solo di riuscire a raggiungere i parametri di finanza pubblica che il Trattato di Maastricht prescriveva ma anche e soprattutto “entrare nel gruppo di testa, perché in coda il gioco è chiuso” ricorda ancora Prodi: “Non era solo un problema di standing: chi non arriva nel primo round non arriva neanche nel secondo, la gradualità era politicamente impossibile, il sistema si sarebbe chiuso ci dicemmo con Ciampi”. Che è come dire: se non ce la facciamo noi, subito, l’Italia non ce la potrà mai fare. “Blindammo subito la strategia, Ciampi al Tesoro, Vincenzo Visco alle Finanze”. I due infatti come sappiamo viaggeranno di concerto strettissimo, sarà proprio Visco a trovare con la lotta all’evasione fiscale lo strumento per rimettere in sesto i conti, e anche materialmente tra Roma, Bruxelles, Washington, Francoforte, Parigi, Berlino: un sodalizio che diventerà poi una grande amicizia. “Sapevamo che il vero nodo era la tenuta della coalizione di governo, con un deficit al 7,5 per cento. Sapevamo di dover mandare, tra mille polemiche che si sarebbero scatenate, un messaggio forte, come facemmo e ripetutamente, alla pubblica opinione”, continua Prodi. Nelle prime ore dopo l’insediamento del governo “mandammo a Kohl e Chirac una lettera molto chiara: vogliamo scendere subito sotto la soglia del 3%. E ce la facemmo: in meno di un anno arrivammo al 2,7. Il debito pubblico scese dal 127 per cento del Pil a 111, a fine governo arrivò addirittura al 100%...”.

La rievocazione di quella stagione gloriosa nella quale una classe dirigente politica altamente competente, consapevole e responsabile riuscì a salvare la pelle a un Paese oberato dalla folle finanza pubblica inaugurata negli anni Ottanta, ad attuare il disegno dell’Italia nell’euro prima di esser rimandati a casa da Bertinotti grazie a un solo voto mancante alla fiducia in Parlamento, e soprattutto prima che Ciampi potesse avviare un vero risanamento del debito pubblico, è stata al centro di una riunione di discussione e studio organizzata dalla Normale - che a Ciampi ha dedicato una sua Scuola, con corso di studimartedì scorso a Palazzo Strozzi a Firenze, nell’ambito di una lunga serie di convegni sulla figura di Ciampi e sui determinanti ruoli istituzionali da lui ricoperti nella sua “vita di corsa” - secondo le sue stesse parole- che come ha anticipato il direttore della Normale Luigi Ambrosio, culminerà ad aprile 2020, nel centenario della nascita. Una discussione straordinaria per la presenza dei protagonisti dell’epoca, e per la libertà del confron- to, nella fragorosa assenza di testimoni del mondo dell’informazione. La via della franchezza l’imbocca subito, per l’appunto, Romano Prodi. “L’entrata dell’Italia nell’euro all’estero non era gradita a tutti. Al cruciale vertice di Valencia, Aznar fece il furbo, fece l’hidalgo raccontando al Financial Times che era stata la Spagna a convincere una riottosa Italia”. Non era vero niente, “tutte balle” sbotta Prodi “e la prova sta in un’intervista di Ciampi al Sole 24 Ore, già a gennaio 1996 disse che la volontà era entrare nell’euro e nel gruppo di testa”. ” Aznar era dilagante”, ricorda Mario Monti. Il quale ci mise del suo, dando da Commissario Ue alla Concorrenza nel maggio del 1996 un’intervista al Financial Times nella quale metteva in dubbio che l’Italia ce la potesse fare, avanzando pure l’ipotesi che il tentativo potesse sortire l’effetto di un rallentamento complessivo della nascita dell’euro. Il governo italiano - oltre la rabbia fredda di Ciampi- reagì con asprezza, pubblicamente, a cominciare da Prodi. Che al convegno è seduto proprio accanto a Monti, e sorridendo lo ascolta giustificarsi “io volevo solo scuotere l’opinione pubblica... lei, presidente Prodi, fece benissimo a reagire... ho un bellissimo ricordo di quel nostro contrasto, e lei poi mi confermò come Commissario...”.

Non fu, come sappiamo, solo Monti a dubitare: pur essendo clamoroso da parte dell’italiano più importante a Bruxelles, lo fece anche, addirittura, dall’altra sponda dell’Oceano Franco Modigliani. E con cadenza da stillicidio sulla prima pagina del Corriere della Sera c’erano sempre Giavazzi e Alesina ad avanzare pirotecniche critiche.

Ricomposto pubblicamente il dissidio, pubblicamente Prodi ha chiesto a Monti quale fosse la posizione della Commissione Ue, come corpo collettivo, verso l’Italia, “perché è una cosa che non ho mai capito”. La Commissione, ha risposto Monti, “è stata sempre ambigua: dell’ingresso dell’Italia nell’euro abbiamo discusso solo al momento di prendere la decisione. La posizione di Aznar era dilagante, tutti capivano che la Spagna puntava a rallentare l’Italia, ma siccome anche in Italia c’erano dubbi...”.

Il governo, racconta Vincenzo Visco, “prese la decisione di tentare il tutto per tutto a settembre, in una riunione breve e senza dissensi a Palazzo Chigi. C’erano Prodi, il suo sottosegretario Micheli, naturalmente Ciampi ed io, il vicepremier Veltroni e il ministro Treu. Per ragioni politiche e di tempo capimmo subito che non potevamo operare attraverso tagli rilevanti alla spesa pubblica, capimmo che oltre quelle che Ciampi chiamava “misure di tesoreria” - e cioè rimodulazioni contabili di alcune poste di bilancio- ci restava solo lo strumento fiscale. E aumentare le tasse è il “lavoro sporco” del ministro delle Finanze...”. Nasce così a fine dicembre l’eurotassa, che valeva 4.300 miliardi di lire e serviva a ridurre dello 0,6% il disavanzo. E che a sorpresa non solo venne poi effettivamente resa agli italiani, “la prima tassa restituita della storia” come dice il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, ma che gli italiani furono fieri di pagare: come sappiamo dal memoir di Paolo Peluffo, portavoce di Ciampi da Palazzo Chigi al Quirinale, fu commissionato un sondaggio, e il 67% degli italiani erano fortemente convinti dell’ingresso nell’Unione monetaria. Un sondaggio analogo, e anche quello dal risultato inatteso, testimoniava che a differenza dei loro governi i cittadini di Olanda, Francia e Germania erano in larghissima parte favorevoli all’Italia nell’euro: quei dati aiutarono a vincere le resistenze del falco tedesco Starck.

Il Cancelliere tedesco Kohl, pur personalmente favorevole, aveva infatti il problema della propria opinione pubblica, e non solo. La sua preoccupazione era se il governo avrebbe retto, e cosa ne sarebbe stato del debito pubblico italiano, “dovete fare i compiti a casa, mi diceva, e del resto lui era così, usava sempre metafore legate ai banchi di scuola...” ricorda Prodi. “Ma i più contrari erano i bavaresi: dovetti parlare molte volte col capo della Cdu Stoiber”. Il segnale politico che ce l’avremmo fatta ad avere il via libera dei grandi paesi europei arrivò dalla Francia. Accade tutto a novembre 1996, al momento dell’ingresso della lira nello Sme, il “serpentone europeo” che fece da ponte all’euro. “Si trattava di contrattare la quotazione. Nelle riunioni alle quali partecipavamo Mario Draghi per il Tesoro e io per la Banca d’Italia si era partiti da quota 920 e si era arrivati a una quota 950 irrinunciabile per la Bundesbank, mentre il mandato che avevamo ricevuto da Palazzo Chigi era 1.000 lire per marco”, racconta Pierluigi Ciocca. Che, al momento decisivo, si rivolge a Prodi e gli sihgerisce di telefonare a Chirac. Cosa che Prodi fa immediatamente: “Non c’è nessuna Europa senza l’Italia, a me il cambio non interessa” gli dice il presidente francese. La Francia voleva l’Italia nella moneta unica, “era fu il segnale che attendevamo”, nota Prodi. I tedeschi accettarono subito quota 990. Chirac, bisogna considerare, era molto irritato per le continue svalutazioni della lira che mettevano in difficoltà il sistema industriale francese, e in vetrina le sue inefficienze. Gli Stati Uniti dubitavano intanto non solo che l’Italia ce la facesse: erano scettici proprio circa una nuova moneta unica europea ( chi scrive ricorda i fondi del Washington Post, “Europei ammalati di vanità monetaria...). “Temetti che potessero farla saltare appena nata” confessa Prodi. “Sarebbe bastata una mossa speculativa, ma invece non accadde: quegli Stati Uniti erano assai diversi da quelli di oggi. Avevano il senso della comune famiglia europea”.

Il 2 gennaio 1997 Ciampi comunica al presidente del Consiglio che i conti sono a posto, il deficit è al 2,7 per cento - ben al di sotto del 3. “E avemmo un surplus primario del 6,2 per cento - un record- mentre il Pil crebbe dell’ 1,8” ricorda Vincenzo Visco, che perseguendo evasione ed elusione fiscale di fatto “finanziò” l’ingresso nell’euro con 4,5 punti di Pil, e vi fu infatti in seguito un taglio delle tasse per una equivalente percentuale.

“Ma tutto dipese non solo dalla credibilità, dalla coesione e determinazione del governo: senza la determinazione, la caparbietà, l’abilità politica, la serenità anche nei momenti più difficili che aveva Carlo Azeglio Ciampi, non ce l’avremmo mai fatta” ammette Vincenzo Visco.

Perché Ciampi contraddiceva a ogni vertice, a ogni incontro, la nomea di incompetenza e inaffidabilità della classe dirigente e politica italiana. E perché era un uomo con una straordinaria capacità di relazioni umane: franco, diretto, aperto e sempre sorridente.

L’Italia ce la fece, in extremis ma ci riuscì. Poi, quella formidabile squadra di governo che era riuscita nell’impossibile impresa venne mandata a casa. “Cominciò la caccia alla lepre, e la lepre ero io” ricorda Prodi, “e Ciampi capì subito il gioco che Bertinotti stava facendo”. Furibondo, mentre stava preparando il piano di risamento in 10 anni del debito pubblico italiano, meditò di dimettersi subito. Resta, oltre all’euro, una grande lezione politica: credibilità, competenza, coesione attorno a un progetto politico forte sono gli unici elementi capaci di resuscitare la fiducia nella politica dei cittadini. E al punto tale da pagare volentieri le tasse.