Se c’è una certezza, sei anni dopo l’arresto choc dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole, è che di prove di un accordo collusivo tra l’icona antimafia e il clan Arena non c’è traccia. E, ancora di più, che quella donna che si era messa in testa di combattere contro la potente cosca del suo paese era stata lasciata sola dallo Stato, che ha affidato a lei il compito di prendere decisioni rimaste colpevolmente in sospeso, anche col rischio di fare un favore ai mafiosi. Sono conclusioni pesanti quelle a cui sono arrivati i giudici d’appello di Catanzaro, che hanno confermato l’assoluzione stabilita in primo grado per la Girasole.

L’accusa, per una che per anni è stata simbolo della lotta alla bramosia delle cosche calabresi, era pesantissima: che per conquistare quella fascia tricolore avesse stretto un accordo con la cosca, chiedendo voti in cambio di favori. Favori che si sarebbero concretizzati soltanto due anni dopo quel voto, attraverso un’attività amministrativa «apparentemente lecita e sapientemente guidata, diretta in realtà ad assicurare alla cosca Arena non solo il mantenimento di fatto del possesso dei terreni confiscati a Nicola Arena, quanto la loro coltivazione a finocchio e la relativa raccolta dei prodotti inerenti all’annata agraria 2010, attraverso l’omessa frangizollatura del prodotto e la predisposizione di un bando per la raccolta». Ma tutto ciò, per i giudici, non è vero.

Sbattuta come un mostro in prima pagina, costretta agli arresti in carcere e poi ai domiciliari per un totale di 168 giorni, la Girasole, oggi, può amaramente gridare vittoria. Perché i giudici, nonostante le insistenze della Procura antimafia, che hanno ribadito la convinzione di avere a che fare con una finta paladina della giustizia, hanno sancito la mancanza di una qualsiasi prova a conferma di quel patto scellerato. Così come mancano le pressioni sugli elettori, mentre, di contro, gli Arena tentavano in ogni modo di far cadere l’amministrazione Girasole, ammettendo anche, in un’intercettazione, di non aver raccolto voti per quella donna più volte apostrofata in malo modo. Un’accusa infondata, dunque, in un processo dal quale, semmai, emerge «l’immobilismo colpevole degli organi periferici dello Stato». Ovvero, su tutti, della Prefettura, che di quegli atti che avrebbero spodestato i clan dai terreni confiscati se ne sarebbe lavata le mani.

Nelle 82 pagine che motivano la sentenza del 27 maggio scorso, i giudici sono “spietati”: dalle intercettazioni, dicono, non emerge «la prova certa del sinallagma corruttivo», mancando «elementi sufficienti a dimostrare che gli Arena si fossero spesi nel 2008 per l’elezione della Girasole e di seguito l’esistenza di un comportamento della Girasole in favore degli Arena». Anzi, le intercettazioni «appaiono poco significative per la ricostruzione dei fatti nei termini ritenuti dall’accusa», rappresentando piuttosto «elementi contrari». Come, ad esempio, la conversazione 658 del 6 novembre 2010, nella quale «si nega espressamente la raccolta di voti».

Impossibile, per i giudici, ipotizzare che gli Arena fossero a conoscenza prima del tempo del bando per la raccolta dei finocchi coltivati sul terreno loro confiscato, come ipotizzato dalla Dda: nelle conversazioni, infatti, i riferimenti sono ad una lettera e ad un non meglio specificato bando della Prefettura, «poco comprensibile», al punto di non consentire «di imputare al sindaco alcuno specifico comportamento». Quello dei giudici appare come un vero e proprio atto d’accusa nei confronti della Procura, che «non è riuscita a provare in che termini e quanto sia stato rilevante il riferito appoggio elettorale» e a portare in aula «proprio la prova dell’accordo collusivo».

Tutte le intercettazioni sono riferite al 2010, due anni dopo l’elezione del sindaco Girasole, che risaliva al 2008: manca, dunque, la dimostrazione che sin da quell’anno ci fosse stato un patto «preciso e non meramente generico su future ipotetiche utilità» derivanti dalla vendita dei finocchi, che per realizzarsi richiedevano, comunque una serie di atti e provvedimenti «che non erano comunque all’epoca nelle disponibilità del sindaco». L’appoggio elettorale del clan rappresenta «una mera ipotesi» senza riscontro, in quanto «nessun elemento diretto a carico o dotato di adeguata concludenza è stato fornito al riguardo». Insomma: non ci sono prove. Così come «non vi è chiara descrizione di una condotta di intimidazione nei confronti degli elettori: si tratta di un fatto presente solo nella contestazione formale».

Ma non solo. L’iter che ha condotto ad abbandonare le operazioni di distruzione dei finocchi «è stato determinato per un verso dalla mancata assunzione di responsabilità di alcuni degli organi preposti e per altro verso dal dichiarato scopo di perseguire l’obiettivo di spossessare comunque definitivamente» i proprietari delle terre loro in uso. Un procedimento «sostanzialmente gestito dalla Prefettura», mentre al Comune «era delegata la funzione di tipo tecnico operativo».

Insomma, dal 2008 al 2010 Girasole non aveva avuto alcun potere, mentre Agenzia del Demanio, Agenzia per i beni confiscati e Prefettura, che fino ad allora avevano avuto la disponibilità legale degli immobili, «non avevano posto in atto concreti comportamenti volti a privare dei terreni la famiglia Arena». Le istituzioni avevano lasciato il Comune da solo e al sindaco non è rimasto che tentare di accelerare l’iter formalizzando un bando - «legittimo» per la raccolta, decisione presa «proprio in conseguenza di tale mancata assunzione di responsabilità, ottenendo, con l’unico mezzo che a quel punto si era rivelato possibile, il risultato che comunque le altre istituzioni fortemente chiedevano, cioè quella di consegnare i terreni liberi del raccolto».