Le immagini della catastrofe non devono confonderci. La terrificante piena d’acqua che ha devastato Venezia sommergendola fino all’inverosimile non ha solo ferito e deturpato una città unica al mondo, gioiello d’equilibrio architettonico, storico e umano che la rende al tempo stesso fiabesca e irripetibile. Quella marea è lo specchio di un Paese che sta affondando sotto il peso dell’insipienza, dell’incapacità, dell’avidità e della stupidità ( sì, c’è anche quella: forse soprattutto) di una classe dirigente che ha abdicato ai suoi compiti e di una cittadinanza che ha snobbato la difesa del suo patrimonio più importante ed esclusivo.

E infatti. Non ci sono innocenti ma solo colpevoli in una vicenda che si rotola nell’incuria da decenni e che coinvolge responsabilità a tutti i livelli. Il Mose incompiuto, a cui tutti oggi lacrimevolmente si richiamano, è la metafora di uno Stato che si è dimostrato disastrosamente al di sotto delle necessità e che si rimira nella tragedia dell’Ilva, nel disastro di una politica industriale praticamente mai intesa come servizio alla collettività bensì occasione di supremazie singole spesso senza neppure rifiutare sconfinamenti a favore di potentati e criminalità varie; di disinteresse verso zone intere del Paese lasciate al proprio destino.

Una tristezza infinita. In particolare nella sua riproduzione ciclica: uguale e disperante. Prima di Venezia c’è stata Genova con i viali trasformati in fiumi in piena; e Matera allagata, e migliaia di chilometri sulle coste e nell’entroterra lasciati senza protezione, sperando nello stellone e confidando nelle casse pubbliche: binomio italiano su cui non tramonta mai il sole. Fa naufragio il Paese, non solo Venezia. E ciò che lascia allibiti è che in troppe occasioni lo fa nel disinteresse, come se tutto accadesse per una condanna del destino avverso e non per colpa di chi ha scambiato le responsabilità in convenienze. Venezia affonda sotto i colpi di una laguna maligna la cui vastità non deve diventare alibi per scantonare. E’ l’Italia che ha l’acqua ben sopra le ginocchia e che invece di mobilitarsi per trovare i rimedi preferisce accapigliarsi in un disarmante scaricabarile gonfio di rimpalli e risentimenti. Dall’alluvione di Firenze è passato oltre mezzo secolo. E siamo ancora qui: sbigottiti e sommersi.