C’è chi promette le barricate sullo scudo penale, chi è pronto a fare la guerra in caso di rinuncia al simbolo in Calabria ed Emilia Romagna e chi sceglie silenziosamente di andarsene. Il Movimento 5 Stelle, sull’orlo di una crisi politica, si è trasformato in una Babele di posizioni che potrebbe costare cara a Luigi Di Maio, troppo distratto dai mille dossier governativi per riuscire a guidare la prima forza parlamentare del Paese. Ed è proprio questo il punto su cui i ribelli di tutte le latitudini pentastellate convergono: il ridimensionamento del capo politico.

A Montecitorio la strategia di logoramento del leader passa attraverso lo stallo sulla nomina del capogruppo. Da più di un mese i deputati M5S non sono in grado di fare una sintesi per scegliere il successore di Francesco D’Uva, rendendo pubblica tutte le fragilità di un partito che non riesce a più ritrovare un’identità dopo una serie impressionante di sconfitte elettorali rimediate a cavallo tra due governi. Risultato: il derby infinito tra Francesco Silvestri e Davide Crippa resta senza vincitore. Partita rimandata a mercoledì prossimo con la possibilità di presentare nuove candidature.

Di Maio, timoniere di tutte le svolte compiute in un anno e mezzo, sa di essere parte del problema ma non sembra intenzionato a recedere di un passo. Al massimo il capo politico prova a mediare, quando non sminuisce. «È evidente che c’è una parte del Movimento 5 Stelle a cui non va bene il M5S, ma che ci vuole stare dentro. È la parte che fa rumore, ma non è la più numerosa», dice il ministro degli Esteri in diretta Facebook, mentre ancora nel suo partito si moltiplicano le dichiarazioni di quanti mettono in guardia il leader su possibili cedimenti in materia di Ilva. Vada per la Lega «che ha 300 mila euro di bond su ArcelorMittal e che cura i propri interessi, presenti un emendamento» sullo scudo penale, ma «che nella maggioranza si presentino emendamenti senza un accordo, è un problema per la maggioranza», prova a rassicurarli con toni da battaglia il capo grillino. A cui però sta per esplodere un’altra grana tra le mani: le elezioni regionali. «Oggi, sicuramente, nel Movimento non c’è un consenso per fare alleanze locali con il Partito democratico», è l’assunto da cui parte Di Maio, chiudendo definitivamente in faccia la porta ai dem, con cui non c’è «un’alleanza» neanche il Parlamento, a quanto pare, «ma è un governo che nasce dopo le elezioni e che mette insieme i voti perché non abbiamo raggiunto il 51 per cento dei consensi». Ma se la premessa può anche andar bene a chi ritiene archiviato l’esperimento umbro, le possibili conclusioni potrebbero far saltare l’intera baracca pentastellata. Le pubbliche prese di posizione di pezzi da novanta, come Max Bugani e Nicola Morra, favorevoli al ritiro del simbolo in Emilia e Calabria alle prossime elezioni, mettono in allarme i militanti. Tanto da convincere l’ex ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, a rompere il silenzio per schierarsi con i malpancisti. «A me pare tanto che non candidarsi sia l’esatto opposto di quel “non mollare mai” che da sempre ci ispira», dice il senatore grillino, prima di lanciare una frecciatina al leader. «Una scelta che sembra voler servire solo a non incolpare qualcuno in particolare, Luigi in primis, per l’ennesima sconfitta. Ma nessuno si deve sentire l’unico o il principale colpevole. Per il semplice fatto che nel M5S all’io egocentrico si contrappone il noi condiviso». Il sospetto è che la scelta di non correre possa servire non solo a evitare l’imbarazzo di nuove sconfitte, ma anche a offrire al Pd una sorta di desistenza nelle Regioni in cui i dem, a differenza dei grillini, restano in partita contro il salvinismo. Il capo politico, in ogni caso, dice che l’ultima parola spetta ai territori. «Nella prossima settimana ho delle importanti riunioni con i gruppi della Calabria ed Emilia- Romagna per decidere il da farsi», garantisce il ministro degli Esteri.

E mentre Di Maio prova a trattenere una potenziare slavina, i gluppi si svuotano silenziosamente. Due giorni fa è toccato a Elena Fattori, senatrice “dissidente” in attesa di un giudizio dai probi viri da più di un anno, abbandonare il partito. Si è unita al Misto, dove ritrova gli ex compagni d’avventura Gregorio De Falco e Paola Nugnes, già allontanati per posizioni anti leghiste. Insieme a loro, ritroverà anche gli ex grillini Maurizio Buccarella e Carlo Martelli, espulsi dal Movimento alla vigilia delle elezioni politiche per i trucchi sui rimborsi.

Il capo politico si mostra sereno. Mentre gli altri si muovono lui resta fermo dov’è.