Nella notte da incubo tra mercoledì e giovedì il Pd si è arreso per l'ennesima volta. L'abilità retorica del presidente del consiglio, con la sua bugiarda esaltazione dell'unità del governo, è un velo inconsistente. La realtà è ben diversa: il Pd avrebbe voluto procedere con un decreto sullo scudo penale, condizione ineludibile per riaprire la trattativa con Arcelor-Mittal sull'Ilva. L'M5S, condizionato dall'area che fa capo alla ex ministra Barbara Lezzi, decisa anche a rischiare la crisi pur di evitare lo scudo, si è opposto. Il premier, che oscilla tra una posizione e l'altra a seconda di quale sia il maggior rischio momentaneo per la sua permanenza a palazzo Chigi, si è schierato i pentastellati. Il Pd si è piegato.

E' successo, nell'arco di appena un paio di mesi, numerose volte, di fatto ogni volta che ci si è trovati di fronte a una scelta di qualche importanza: dal taglio dei parlamentari, che il Pd aveva bocciato tre volte prima di approvarlo nella quarta votazione, ai decreti Sicurezza, la cui abolizione era per Zingaretti condizione inderogabile alla quale si è poi derogato, sino alla rimodulazione dell'Iva, il cavallo di battaglia del ministro Gualtieri e del suo partito rientrato di corsa nella stalla per non irritare Di Maio ( e Renzi).

Contro ogni previsione e contro la stessa elementare logica politica, le redini del carro giallorosso sono nelle mani dei pentastellati. Appena due mesi fa, quando il governo è nato, non lo avrebbe detto nessuno. Non era solo l'immenso scarto tra l'esperienza governativa del Pd e quella, inesistente, dei 5S a giustificare la previsione. Pesavano anche di più i rapporti di forza. Il Pd aveva da perdere, in eventuali elezioni, molto meno dei nuovi alleati. Sarebbe stato sconfitto ma a testa alta mentre per i 5S il rischio di distruzione totale era corposo. Sembrava inevitabile che il Pd facesse pesare i propri assi conquistando quella leadership all'interno della maggioranza che la Lega aveva preso d'impeto partendo da posizioni estremamente più fragili.

E' andata e sta andando all'opposto. Il Pd subisce continuamente l'iniziativa degli alleati, si uniforma alle posizioni che sino a tre mesi fa bersagliava senza posa. In Italia le cose cambiano in fretta. Già oggi il partito di Zingaretti si trova in una situazione molto più difficile di quanto non fosse tre mesi fa e la sudditanza al Movimento inizia a costare anche sul piano dei consensi, per ora solo nei sondaggi. Ma chiedersi da cosa sia determinata l'arrendevolezza all'apparenza inspiegabile di Zingaretti è necessario per capire qual è il quadro politico reale del Paese e del ( virtuale) centrosinistra.

E' vero che sul piano dei risultati il Pd aveva e probabilmente ancora ha da perdere molto meno dei 5S ove si arrivasse a crisi ed elezioni. Ma quel che ha da perdere è per il Pd vitale: la permanenza al governo, la speranza di stringere un'alleanza purchessia con i 5S in modo da poter competere per il governo anche alle prossime elezioni. Non è solo un triviale problema di posti e poltrone e postazioni di potere. Questo deprimente aspetto c'è ma non è probabilmente l'elemento essenziale ed eminente. Il nodo centrale è l'impossibilità per il Pd di avere un ruolo, e anche solo di immaginarlo, se non all'interno del governo.

Va da sé che vincere le elezioni e governare è obiettivo legittimo e sano di ogni forza politica. Ma è altrettanto vero che l'identità di una forza politica non può limitarsi alla sua permanenza al governo. La capacità di reggere e di esistere anche se ci si trova all'opposizione, come in una democrazia sostanziale è inevitabile, è condizione essenziale per essere una vera forza di governo. La presenza di un disegno che possa essere perseguito, sia pure con mezzi ed efficacia diversa, sia dagli spalti del governo che da quelli dell'opposizione è imprescindibile per proporsi come forza capace di creare consenso e non solo come fazione che si candida a governare in nome dell'amministrazione fine a se stessa. E che di conseguenza molto difficilmente riesce a varcare i confini del proprio elettorato di riferimento più fidelizzato.

Affermare che in questa maggioranza il Pd è del tutto privo di identità sarebbe esagerato. Quell'identità però è ridotta a un unico e solo bastione: la fedeltà all'Unione europea, la linea invalicabile tracciata sul confine di quel che è o non è tollerabile e gradito a Bruxelles. Ma la stessa fedeltà all'Europa non basta a creare un'identità o a delineare un disegno credibile. Alla fine resta solo il governo come condizione essenziale per esistere. Di qui forse la convinzione, largamente diffusa sino alle elezioni in Umbria ma dedotta solo dalla propria specifica esperienza, che messa fuori dal governo la Lega si sarebbe ' sgonfiata'. Solo che la Lgea, a differenza del Pd, una proposta e un'identità può vantarla tanto al governo quanto all'opposizione.

In un tempo prevedibilmente limitato il Pd dovrà uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato, decidendosi a esistere anche senza governo e dunque ad affrontare le elezioni. Altrimenti la crisi gli rovinerà addosso e il Pd si troverà a dover affrontare le urne nella condizione peggiore possibile.