L’entrata in vigore, il 1 gennaio 2020, delle modifiche in tema di prescrizione del reato di cui alla legge 9 gennaio 2019, n. 3 ( c. d. spazza- corrotti) costituirà – è facile previsione – il preludio a processi infiniti, con un impatto che l’allora ministro Giulia Bongiorno non esitò a definire esplosivo quanto una bomba atomica. Il fulcro della riforma è rappresentato dalla modifica dell’art. 159, co. 2, c. p., secondo cui “Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna”.

Il termine “sospensione” è improprio tecnicamente: la nuova disciplina determinerà un vero e proprio arresto – non una parentesi – al decorso del termine prescrizionale dopo la sentenza di primo grado, di condanna o di assoluzione, tanto che la prescrizione del reato non potrà più maturare in appello o in cassazione.

Più razionale era la c. d. Riforma Orlando, che aveva introdotto – nel solo caso di condanna – due periodi di sospensione non superiori a un anno e sei mesi, l’uno dopo la sentenza di primo grado, l’altro dopo quella d’appello, consentendo una maggiore durata del processo di tre anni per giungere alla sentenza definitiva.

La nuova normativa è inefficace e incostituzionale.

Inefficace perché la sospensione opera dopo la sentenza di primo grado, mentre secondo dati ufficiali circa il 50 % dei processi si prescrive prima: in fase di indagini o entro la fine del giudizio di primo grado.

Incostituzionale perché viola norme fondamentali.

Anzitutto, urta con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., equiparando situazioni tra loro diverse, ovvero la sentenza di condanna e quella di assoluzione. La scelta di bloccare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, seppur assolutoria, è incompatibile anche con l’art. 27 Cost.: la presunzione di innocenza, ivi prevista, è sostituita incredibilmente dalla presunzione di colpevolezza. Nel Paese di Cesare Beccaria… Infine, la modifica è incompatibile con le garanzie dell’art. 111 Cost. sulla ragionevole durata del processo: imputato e persona offesa rimarranno in una situazione di “pendenza” del processo a tempo indefinito.

Per l’imputato assolto sarà vieppiù vessatoria e iniqua la presenza di un carico pendente: si pensi al pregiudizio nella partecipazione a gare di appalto, concorsi pubblici e simili.

Propagandata come riforma che avrebbe consentito una giustizia più celere, quasi che i ritardi nella fissazione dei processi siano esclusivamente imputabili a manovre difensive dilatorie, essa elude il vero tema del funzionamento della giustizia penale e inficia la ratio dell’istituto della prescrizione.

È irreale pensare a un tempo accettabile di definizione dei gradi di impugnazione in assenza del “pungolo” della prescrizione per gli organi giudicanti.

Urge un capovolgimento totale di prospettive: attuare interventi legislativi e organizzativi al fine della celebrazione dei processi in tempi brevi, con la costante salvaguardia dei diritti di difesa.

Fermo il fatto che, se lo Stato non riesce a definire i giudizi nei termini di prescrizione stabiliti, la rinuncia al giudizio e alla pretesa punitiva risponde a un principio di civiltà giuridica. Un cittadino, assolto o dichiarato colpevole in primo grado, non può essere sottoposto a un giudizio per un tempo indefinito: è irragionevole che solo a molti anni di distanza l’assoluzione diventi definitiva o la pena sia irrogata.

Molti e autorevoli sono i rilievi contro tale riforma, ma il ministro della Giustizia Bonafede, con le sue dichiarazioni, pare escludere in assoluto modifiche e aggiustamenti.

In tale malaugurato caso, corriamo il rischio che la Corte EDU, dopo la recente condanna contro l’ergastolo ostativo, possa pronunciarsi sul processo illimitato.

* avvocato