A Santiago del Cile c’è una piazza che ribolle. E la terra di Neruda è tornata a conoscere paura e sgomento. Soltanto venerdì 25 ottobre un raggio di sole ha fatto capolino tra le nubi. E’ stato quando una immensa folla di donne e uomini, giovani e meno, ha invaso Plaza Italia. Oltre un milione di persone, secondo fonti governative. Protestavano contro carovita e stipendi da fame, contro la repressione della polizia, per rivendicare sanità e scuola pubblica, pensioni dignitose e sicurezza. Insieme a maggiori libertà civili e politiche. Valparaiso non è stata da meno quando, la domenica successiva, un serpentone umano lungo chilometri che ha colorato di sé il lungomare che la unisce a Viña del Mar.

Ha colpito il carattere pacifico di queste grandi manifestazioni, dopo giorni di disordini e di scontri, seguiti da saccheggi e furti. Immagini drammatiche che hanno fatto il giro del mondo fino alla dichiarazione di stato d’emergenza e all’imposizione di un “toque de queda” ( coprifuoco) che ha fatto tornare alla mente i giorni più bui del Golpe di Pinochet. Sono davvero giorni difficili in Cile. Si respira angoscia e smarrimento. Persino negli occhi dei giovani militari messi a guardia degli incroci, armati di tutto punto. Giovani che poco conoscono di un passato non troppo lontano. Giovani spesso smarriti e incattiviti che fanno tornare alla mente i “proletari in divisa” di cui parlava Pier Paolo Pasolini nel ’ 68 italiano.

Laggiù abbiamo parenti e amici, dentro e fuori la comunità italiana. Le informazioni che c’arrivano non sempre collimano. Da queste frequentazioni ne è nato un libro dedicato al lungo viaggio dalle Apuane alle Ande di Alberto Rosselli, capostite di una famiglia ormai ben radicata in quella capitale. Un ragazzo partito all’avventura quando ad emigrare eravamo noi italiani.

A Santiago c’è una piazza s’intitola quel volumetto che di Piazza Italia dice: «È il km 0 da cui si misurano le distanze (…) chilometriche ( e) sociali, fra chi vive nei quartieri verso l’Oeste ( Ovest) e chi, invece, risiede verso l’Oriente (..) in direzione delle Ande, ( dove) si trovano i palazzi più moderni, le case più belle, i locali più eleganti e alla moda. In direzione opposta, più ci si allontana dal centro e maggiore degrado e povertà s’incontra».

Già, le distanze sociali. Dopo gli anni della dittatura, il Cile è cambiato, è cresciuto. La sua economia ha conosciuto un’impennata, la democrazia s’è consolidata, ma le diseguaglianze sociali si sono fatte insostenibili. C’è gente che vive sotto i ponti o in baracche di lamiere sulle sponde del fiume Mapocho, a pochi passi dal centro e dal quartiere chiamato “Sanatthan”, la Manhattan del Sudamerica, dove svettano i più alti e moderni grattacieli.

Dal 2005 si sono alternati governi di sinistra e di destra ( prima Michelle Bachelet, poi Sebastiàn Piñera, poi ancora Bachelet e oggi di nuovo Piñera). Il Cile non è più quel lontano e isolato paese del 1973. El Mercurio, il principale organo di stampa filogovernativo, nulla può contro le foto e i video che rimbalzano sui social media. L’imponenza delle manifestazioni ha costretto il governo alla retromarcia sull’aumento del ticket sulla metro, la scintilla che ha infiammato gli scontri, le violenze e i vandalismi. Una rivolta che si spiega soltanto con una rabbia covata da tempo. Ma il Cile non è l’Ecuador o il Venezuela. Difficile individuare un riconoscibile disegno politico dietro le proteste cilene. E ciò rappresenta il punto di debolezza della contestazione. A tratti pare una rabbia fine a se stessa. Arduo anche pensare che 19 stazioni della metropolitana ( un vanto per i cileni) siano andate a fuoco nello stesso giorno, alla stessa ora, senza una regia alle spalle. Così come per gli incendi nei 20 supermercati della catena Usa Walmart.

Alle proteste politiche, negli ultimi giorni si sono poi accompagnate le gesta dei Lumpen ( espressione che non trova una corrispondenza in italiano). Bande di malviventi che spaccano vetrine e saccheggiano di tutto. Il caos, come nel film Joker, stando alle immagini che ci arrivano da Antofagasta nel nord del Cile o da Concepcion e Valdivia, 500/ 700 km a sud di Santiago. Sono apparsi anche i gilet gialli ( calenchon amarillos), ma del tutto diversi da quelli di Parigi. Qui si tratta di “brigate di autodifesa” di piccoli commercianti a difesa dei propri negozi. Pochi i quartieri considerati sicuri. Così non sorprende che siano le fasce più deboli ( e più indifese) della popolazione ad acclamare i militari nelle strade.

L’economia cilena resta una delle più forti dell’America latina e il Paese è leader nel settore estrattivo. Per dire, i salari medi si aggirano intorno ai 600 dollari mensili, una miseria per i nostri parametri, ma niente a che vedere con i 7 dollari delle paghe di Caracas. Il basso costo della manodopera, che ha attirato cospicui investimenti stranieri, è alla base del profondo malessere sociale. Il fatto è che nel settore minerario, cosi come nell’agricoltura e nella pesca, tutto è privatizzato e concentrato in poche mani. Sono gli eccessi del liberismo spinto teorizzato dai Chigago’s Boys che ha acuito le distanze sociali e creato un cortocircuito che non sarà facile da sanare.

Per concludere, ci piace condividere con i lettori de Il Dubbio una mail inviataci da Francesca Ceccotti, una ragazza di Viareggio che produce spettacoli teatrali a Santiago, che dal suo computer s’è rivolta a vari attori e cantanti italiani. Ha scritto: «Non sono più la stessa di prima, non sono la stessa di pochi giorni fa. Dal 19 di ottobre 2019, il sabato del coprifuoco, sono cambiata. E’ cambiata la mia vita, la nostra vita come cittadini del Cile. Ho sentito per la prima volta la paura e la rabbia ardere sulla mia pelle. Sono entrate nel mio vocabolario quotidiano parole che appartenevano agli anni lontani di una storia scura. Coprifuoco, violenza, tortura, “cacerolazo”... Esigo sostituirle con dignità, amore, giustizia, lotta, diritti, vita, famiglia, amici, festa, musica, teatro, salute, mare, abbraccio, sole, ballare».

E chiude: «Ieri l’altro, dopo una giornata emotivamente forte dove mi sono sentita debole e persa, ma ho trovato meraviglioso lavare i miei vestiti, stenderli ed uscire all’imbrunire a buttar via la spazzatura ascoltando il cantare dei grilli, gesti semplici della vita».

A Santiago c’è ancora una piazza e, forse, anche una speranza.