Ma si può? Ma perché dobbiamo leggere ancora una volta un’accusa generica, indiscriminata, raffazzonata sparata nel presunto mucchio selvaggio della giustizia? Perché un giornale attento come La Verità si lascia andare nella titolazione di un’intervista fino a rovesciarla in un’avvelenata contro i suoi colleghi, “Magistrati, avvocati e università hanno ucciso la nostra giustizia”? Si fa fatica a capirlo. Anche perché in tutta la pure interessante conversazione con il legale fiorentino Eraldo Stefani firmata ieri da Marcello Mancini sul quotidiano di Maurizio Belpietro, aleggia una certa fascinazione esterofila. Dall’accostamento di Stefani a Perry Mason alla lamentela per le ingolfate aule dei tribunali, a quel disfattismo declinista antitaliano che ormai sceglie sempre più spesso la giurisdizione come bersaglio preferito. E poi soprattutto, l’idea secondo cui non è l’assetto ordinamentale a fare acqua da tutte le parti ma la condotta dei protagonisti, cioè appunto magistrati, avvocati e al limite accademici.

Non una parola sul fatto che sì, è vero, l’avvocato ha poteri investigativi, eppure il ruolo del pm nella fase delle indagini è così smisurato da negare spesso il valore e la praticabilità stessa dell’attività difensiva. Non una parola sulle sentenze che hanno menomato nella culla il compianto ( anche dall’intervista) modello processuale accusatorio, non una parola soprattutto sulle incompiutezze del sistema a cui persino negli ultimi mesi ci si è rifiutati di rimediare. Esempio: è vero che il codice del 1989 funziona male. Ma è vero pure che a detta di magistrati e avvocati, voluti da Bonafede al tavolo per la riforma, la soluzione era chiara: primo depenalizzare, e sul punto nessuna parte politica è davvero disponibile a esporsi; secondo, rafforzare il ruolo del giudice nell’udienza preliminare, evitare cioè che tale decisivo passaggio del procedimento si riduca a insulso passaggio di carte; terzo, cosa decisiva, rafforzare, cioè rendere più appetibili i riti alternativi, innanzitutto il patteggiamento. Ma qui ancora una volta è la scelta politica che piccona le risorse dell’ordinamento, perché proprio al sopracitato tavolo sulla riforma un partito della vecchia maggioranza, la Lega, ha fatto pervenire il proprio insuperabile veto sull’ipotesi di allargare il patteggiamento e rafforzarne i contenuti premiali. D’altronde, lo stesso partito aveva ottenuto, con la stessa maggioranza di allora, che il ricorso a un altro prezioso rito alternativo quale l’abbreviato fosse escluso per i reati da ergastolo, con conseguente micidiale ingolfamento delle Corti d’assise. E nell’ultimo caso non si parla di propositi riformatori: si tratta di una legge in vigore dallo scorso aprile.

Ecco: ci dite per piacere come si può sostenere che, se il processo penale accusatorio non decolla mai davvero, è per colpa di magistrati e avvocati? E poi, l’attacco ormai sistematico alle toghe, a quelle della magistratura come alle toghe dei difensori, lascia sempre più chiaramente scorgere altri retropensieri, che c’entrano davvero poco con la capacità dell’avvocato di svolgere indagini alla Perry Mason. Qui il punto è il fastidio per il procedimento penale in quanto tale. Che è avvertito ormai come forma di impostura rispetto al processo vero, quello mediatico. E quello sì che funziona. Le indagini difensive non le fa neppure il penalista ma direttamente la tv. Ci piace tanto. E allora rinunciamo del tutto alle aule di giustizia. Rottamiamo le toghe. E mettiamoci davanti a uno schermo per ascoltare la sentenza. Arriverà sicuramente in tempi più brevi e senza calca nei corridoi. Giusto l’attesa per il super spot.