«Mi ordinarono di interrompere la registrazione di Vincenzo Scarantino perché il collaboratore doveva parlare con i magistrati», ha detto ieri il teste Giampiero Valenti in aula a Caltanissetta, nel processo sul depistaggio della strage di Via D’Amelio. È una rivelazione che arriva a sorpresa nel processo dove sono imputati un funzionario del gruppo Falcone- Borsellino, Mario Bò, e due ex ispettori, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei.

Da qualche tempo, a Messina, sono indagati anche due ex sostituti della procura di Caltanissetta, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia. Per quest’ultima indagine sono state recuperate delle bobine dove potrebbero esserci diversi dialoghi tra il falso pentito e i magistrati inquirenti di allora. Il procuratore Maurizio de Lucia ha disposto che il contenuto venga trascritto. Ma, intanto, adesso, si scopre che i dialoghi forse più delicati potrebbero non esserci. Dialoghi che secondo l’accusa potevano provare un accordo per aggiustare le dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio.

Ma ritorniamo alle dichiarazioni di Valenti. Oggi ispettore superiore, 25 anni fa viene inserito anche lui nel pool di esperti e funzionari del gruppo Falcone- Borsellino per contribuire alle indagini sulle stragi del '92 come informatico. Quattro anni fa viene indagato insieme ai colleghi dell'epoca Di Ganci, Militello e Guttadauro, che lui chiama “compagni di sventura”, per concorso in calunnia: la procura di Caltanissetta li accusa di aver avuto un ruolo nella manipolazione del finto pentito Vincenzo Scarantino, contribuendo di fatto al clamoroso depistaggio delle indagini. La stessa accusa a cui devono rispondere i tre ex poliziotti a processo Mario Bo, Matteo Ribaudo e Fabrizio Mattei. Sia Valenti che gli altri tre colleghi vengono definitivamente archiviati dalla procura nissena lo scorso febbraio.

«Il mio compito era quello di gestire la famiglia di Scarantino e le loro esigenze: la spesa, i bambini da portare a scuola e mi è capitato pure di accompagnare lui o la signora a Imperia per una visita oculistica», ha detto ancora Valenti. «Non ricordo esattamente dove si trovasse il telefono in quella casa. Quando poi finì l’attività di intercettazione ci chiesero di firmare dei brogliacci. Riconosco la mia firma – ha riposto dopo aver letto un verbale mostratogli dai pubblici ministeri Gabriele Paci e Stefano Luciani - ma nego di conoscere quella che è l’attività di intercettazione».

Il mistero si infittisce. «Sono stato uno stupido – ha proseguito ancora Valenti - perché non avevo alcuna esperienza. Non capisco perché questo verbale non lo firmò chi gestiva l’attività e lo fecero firmare all’ultima ruota del carro».

Valente precisa che non avrebbe mai avuto a che fare con le intercettazioni di Scarantino. Mai gestite, mai registrate, mai ascoltate. L'unico coinvolgimento, sempre marginale a suo dire, avviene quando il collega gli avrebbe detto «fammi compagnia, vieni con me», accompagnandolo a interrompere l'intercettazione in corso perché Scarantino avrebbe dovuto parlare di lì a poco al telefono con i magistrati.

«Perché non fece una relazione di servizio di quella richiesta illecita?», hanno incalzano le parti civili, gli avvocati Pino Scozzola e Rosalba Di Gregorio. Il poliziotto ha risposto che non gli sembrò una cosa illecita, aggiungendo: «A chi dovevo fare una relazione di servizio? Al mio ufficio, che mi aveva chiesto di staccare quella intercettazione?».