Come scrisse crudamente Lord Acton, “la corruzione è molto meglio che la ruota per la tortura, lo schiacciapollici o lo stringicaviglie, ma tende ad un esito simile. Mina la libertà”. Le leggi, infatti, per quanto ne vengano emanate di improvvide, sono pur sempre basate sui presupposti del diritto, espressi in modo insuperato dal giureconsulto Ulpiano: “Honeste vivere, neminem laedere, suum cuique tribuere'. Tra le singolari stranezze della società italiana annoveriamo la diffusa convinzione che l’evasore fiscale non sia altro che un furbo connaturato od occasionale, renitente a versare i tributi allo Stato. E poiché siamo un popolo che apprezza non poco la scaltrezza, l’evasore è circondato, sotto sotto, da una certa qual ammirazione dei concittadini, larvata e no, per non dire dell’invidia e della simpatia. Ne è prova il fatto, sottolineato con arguzia da Ernesto Galli della Loggia, secondo cui “la società italiana non sanziona né i corrotti né i corruttori con alcun discredito pubblico, con alcuna messa al bando sociale”.

Ecco il punto, troppo trascurato: l’evasore appartiene di pieno diritto alla categoria dei corruttori. Non è soltanto un semplice contribuente inadempiente all’obbligo fiscale e un ladro che ruba ai concittadini per contro paganti in sua vece i servizi pubblici da lui goduti: bensì pure, e di più, un pernicioso e subdolo corruttore della società. E’ molto facile, nonché politicamente correttissimo, gridare “Dagli all’evasore!” Difficile è passare ai fatti. Il primo basilare incentivo all’onestà fiscale sta nelle aliquote ragionevoli. Se la percentuale da versare all’erario è così alta da rendere conveniente l’evasione, la battaglia è persa in partenza. Se il pericolo d’essere scoperti è tanto basso che ad evadere si rischia quasi nulla, è meglio lasciar perdere. Se la sanzione non è poi nemmeno troppo dura da sopportare, la causa è senza speranza. Se infine sussiste la ben fondata aspettativa che i tributi verranno diluiti o condonati, la rassegnazione è d’obbligo.

Lo Stato carica il somaro del contribuente di un pesante basto meravigliandosi che scalci per scrollarselo di dosso. L’evasione trattata soltanto come una violazione dei doveri tributari svuota l’eguaglianza dei cittadini, perché l’evasore parziale o totale gode di un vero e proprio privilegio. Per lui, è come se la legge fosse più favorevole. Infatti lo discrimina a svantaggio degli altri contribuenti pur nelle medesime condizioni. Alla lunga, uno Stato in cui l’evasione è consistente e generalizzata perde autorità, legittimità, credibilità. Istituisce un sistema viziato di democrazia parlamentare perché ammette di fatto una rappresentanza senza tassazione ( representation without taxation!), una disuguaglianza senza giustificazione, una frode senza punizione, un arricchimento per demerito, lo sfruttamento del reato. A misura che l’evasione diviene di dominio pubblico perché cade sotto gli occhi di tutti e i contribuenti infedeli se ne fanno testimoni sfacciati anziché vergognarsene con ritegno, essa fomenta ed accresce il rancore degli onesti contro lo Stato che spreme severamente i rispettosi delle leggi sulla tassazione mentre chi se ne fa beffe non può proprio dirsi, né in effetti è, un perseguitato. E di norma neppure perseguito.

L’evasore fiscale, al dunque, costituisce la perfetta antitesi dei principi di Ulpiano: egli è un disonesto che danneggia la collettività negandole il dovuto. Pertanto, poiché gli effetti indiretti ( etici e giuridici) dell'evasione superano di gran lunga i veri e propri effetti fiscali, non è sufficiente che lo Stato si adoperi per recuperare i tributi evasi ma, nel riscuoterli, consegua pure il superiore obiettivo di sviluppare la morale comunitaria e l’adesione civile allo Stato di diritto rettamente inteso. Assodato e concesso tutto questo, è indubitabile che la democrazia rappresentativa, essendo nata sulle tasse, non può appagarsi di spremerle con la minaccia della galera, agitando le manette agli evasori che, ovviamente, sono più sensibili al tornaconto economico personale che timorosi di improbabili, seppur gravi, sanzioni carcerarie.

La carota degli incentivi davanti all’asino del contribuente serve a condurlo all’onestà fiscale molto più delle bastonate solo comminate da punizioni spaventose sulla carta, non irrogate nella realtà. Il criterio deve essere questo: “A non evadere si guadagna” anziché “Ad evadere si va in prigione”. La democrazia rappresentativa non ha un “diritto assoluto” di pretendere tributi comunque, senza limiti e condizioni. Neppure ha il potere di incamerarli terrorizzando i contribuenti o sottoponendoli a costrizioni, oppressioni, vessazioni. La democrazia non consiste soltanto nell’esercitare il potere di tassare e spendere, avendo purtroppo fallito lo scopo di limitarlo, ma anche, appunto e soprattutto, nell’educare ad esercitarlo, specialmente se è vero, com’è vero, che i tributi sono ciò che paghiamo per civilizzare la società, in ogni senso. Lo Stato, esibendo la faccia feroce, si beffa dell’inappellabile sentenza di Adam Smith: “Un’imposta sconsiderata è una grande tentazione all’evasione. La legge, contrariamente a tutti i comuni principi di giustizia, crea prima la tentazione e poi punisce coloro che cedono ad essa.”