Ho partecipato, su delega del C. N. F, insieme ad un gruppo composto da altri 14 avvocati provenienti da 7 Paesi europei, ad una missione conoscitiva ( fact- finding mission) che si è svolta ad Istanbul dal 13 al 15 Ottobre 2019 per chiarire le circostanze che hanno portato alle pesanti condanne, il 20 marzo 2019, di 18 avvocati turchi appartenenti all’associazione ÇHD, Çagdas Hukukçular Dernegi ( Progressive Lawyers Association).

Attualmente detenuti, volevamo accertare le loro condizioni all’interno del famigerato carcere di Sliviri ( località a circa 70 KM dal centro di Istanbul) e verificare le gravi violazioni dei principi della parità tra accusa e difesa e del giusto processo sanciti dalle convenzioni internazionali. Il presidente dell’Associazione CHD Selçuk Kozagacli è stato condannato a 11 anni e 3 mesi di reclusione. La sentenza è stata emessa al termine di una udienza nel corso della quale non è stato consentito ai difensori di tenere le arringhe finali.

Gli avvocati sono stati condannati per attività connesse alle loro funzioni di difensori e perchè sono stati assimilati ai loro clienti e ad i reati di cui questi ultimi erano accusati. La Corte regionale di Istanbul ha rigettato l’appello, confermando tutte le condanne, senza un dibattimento pubblico.

Tutti gli imputati hanno dichiarato che faranno ricorso alla Corte Suprema. Ci siamo ritrovati in piazza Taksim ad Istanbul alle ore 7,30 del mattino per recarci presso la prigione di Silivri, per avere il previsto colloquio con 4 dei 18 condannati: oltre al presidente dell’Associazione Selçuk Kozagacli, Behic Asci, Barkin Timtik, Ebru Timtik, ( le ultime due avvocate sono anche sorelle).

Nei giorni immediatamente precedenti avevamo fornito i nostri dati anagrafici ed il numero della tessera di avvocato ai colleghi di Istanbul che hanno organizzato la missione, al fine di raccogliere le nomine dei detenuti per intraprendere eventuali azioni innanzi alle giurisdizioni internazionali.

Il carcere di Silivri è un sito molto grande che si compone di diverse aree e strutture all’interno delle quali vive una popolazione complessiva, ci dicono, di circa 23 mila detenuti, tra i quali alcuni rappresentanti di Al Queda. Si trova in un’area scarsamente abitata e gli edifici penitenziari sono per lo più bassi e tutto l’enorme complesso è, ovviamente, cinto da mura.

Il contrasto tra il cielo azzurro intenso tipico del mese di ottobre che ha fatto da cornice alla nostra trasferta, la bellezza della natura circostante, per quanto aspra e priva di vegetazione significativa, e la severità della prigione e l’enormità del sopruso è stato subito evidente. Con il determinante aiuto delle colleghe e dei colleghi di Istanbul che ci accompagnavano abbiamo dovuto superare quattro successivi controlli, di cui uno anche con il sistema di riconoscimento elettronico visivo. Suddivisi in gruppi composti da due membri della delegazione e da un collega turco che fungeva da interprete, abbiamo avuto accesso alle sale colloqui, ed incontrare in successione i 4 detenuti, muniti solo di notes e penna.

I detenuti accedono direttamente dall’interno e dietro la porta interna di ciascuna stanza colloqui resta una guardia penitenziaria che non perde d’occhio mai ciò che accade all’interno. I componenti della delegazione hanno avuto accesso dalla parte opposta. Selçuk Kozagacli è detenuto in isolamento dal novembre 2017. Le sue ripetute richieste di contatti occasionali con altri prigionieri sono state respinte.

L’accusa ha fatto ricorso a numerosi testimoni segreti, dei quali non si conosce la vera identità e ad un testimone “aperto”, una sorta di pentito, la cui pena è stata ridotta in virtù delle sue dichiarazioni accusatorie nei confronti degli imputati. Nel mese di settembre 2018 gli imputati sono stati scarcerati ma, inopinatamente, il giorno successivo nuovamente arrestati, su richiesta del pm, su mandato della stessa Corte che li aveva rimessi in libertà, senza che venissero addotte nuove accuse.

Nel cuore e nella mente restano le immagini e le parole di queste donne e questi uomini che con grande coraggio e dignità affrontano delle pesantissime quanto ingiuste pene detentive e la loro dura condizione di isolamento assoluto nella quale vivono, colpevoli solo di avere fatto fino in fondo il loro dovere di difensori. Restano i loro sguardi che chiedono di non dimenticarli e di non lasciarli soli. E noi non lo faremo.