Peggiore della riduzione dei parlamentari approvata definitivamente dalla Camera senza una contestuale riforma di altre parti della Costituzione e della legge elettorale è solo il modo col quale la si è contrastata da certe parti che pure avevano buoni argomenti per criticarla. Poveretti, si sono tagliati l’erba sotto i piedi non sanno più chi sono o quanto dureranno
Sono rimasto, per esempio, letteralmente esterrefatto nel sentire l’amico Vittorio Sgarbi gridare nell’aula di Montecitorio allo “stupro” che sarebbe stato compiuto contro il Parlamento dai grillini e dai loro nuovi alleati di governo, come se i vecchi passati all’opposizione – i leghisti di Matteo Salvini – fossero stati contrari, e non favorevoli pure loro.
Mai rapporto politico, diciamo così, mi è apparso così consenziente, per quanto paradossale come lo spettacolo, giustamente descritto da Federico Geremicca sulla Stampa, dei “tacchini in festa a Natale”. E’ difficile dare torto, d’altronde, a Renata Polverini, ormai in transito da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, quando spegne l’entusiasmo o solo la fiducia di chi si prepara al referendum di verifica sulla riduzione dei parlamentari dicendo di sentire nel Paese «un vento che non ammette riflessioni, resistenze, pensieri ostili» ai tagli appena approvati. E ciò anche se i grillini hanno sparato, a loro favore, risparmi stellari ridotti, o demoliti, da chi sa fare di conto allo 0,007% delle spese annuali dello Stato, e forse anche meno.
Sugli umori della ggente, con la doppia consonante dei mercati popolari, aveva forse ragione nel 2007 l’allora deputato Marco Boato a compiacersi dell’abolizione della pena di morte dall’inciso costituzionale «se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra» avvenuta «per fortuna» con la maggioranza parlamentare superiore ai due terzi. Ciò le risparmiò infatti la grave incognita del passaggio referendario: grave perché, gratta gratta, la pena di morte in certe circostanze faceva e forse fa ancora meno orrore di quanto non si ritenga.
Già esterrefatto, ripeto, per quello “stupro” gridato a Montecitorio volendo rappresentare l’aula come vittima di una violenza, lo sono ancor più diventato quando l’ormai incontenibile Sgarbi si è mescolato alle capre per le quali scambia in televisione i dissenzienti di turno evocando un altro stupro ancora per appaiarli: quello contestato nei mesi scorsi a un figliolo di Beppe Grillo per una serata trascorsa con amici nell’appartamento familiare di Porto Cervo, in Sardegna. Beh, questo, Vittorio, l’ultragarantista Vittorio non me lo doveva, non ce lo doveva fare, in pendenza peraltro di indagini.
Non si può, non si deve rovinare cosi, e così ripetutamente, una buona causa già costretta a navigare con una certa difficoltà nelle torbide acque della demagogia. Dalle quali i sostenitori in buona fede, vecchi e nuovi, della riduzione del numero dei parlamentari potranno fare uscire la loro riforma solo se e quando avranno davvero messo in cantiere e approvato le cosiddette misure compensative, di carattere costituzionale, legislativo e regolamentare, di cui adesso esistono solo i titoli: niente, ma proprio niente di più. Non vorrei, peraltro, che il passaggio dagli impegni ai fatti fosse ostacolato dalla paura, dalla preoccupazione e persino dalla consapevolezza di togliere così erba sotto ai piedi di una legislatura così fortunosamente o disinvoltamente salvata durante la crisi d’agosto esasperando, diciamo così, il pericolo Salvini: un’esasperazione quanto meno pari a quella cavalcata dallo stesso Salvini con la sua improvvisa e torrida campagna elettorale sulle spiagge, prenotando corse «da solo», ai danni dei suoi alleati locali di centro- destra, e «pieni poteri».
Diciamoci la verità, questo Parlamento eletto il 4 marzo dell’anno scorso, pur legittimamente in carica, per carità, ha perduto un po’ di penne per strada, un po’ di splendore, un po’ di salute, insomma, con le elezioni regionali e infine europee sopraggiunte alla sua nascita. Esse hanno cambiato, e di molto, i rapporti di forza fra i partiti, indebolendo tanto i grillini, per esempio, e rafforzando al contrario i leghisti, da aver fatto cambiare linea al Pd. Che ha ritenuto, a cominciare da Matteo Renzi, di potersi alleare al governo con i pentastellati senza indugio.
Un altro po’ di luce, di salute, di attualità il Parlamento della diciottesima legislatura l’ha perso proprio con la riduzione dei seggi della Camera e del Senato appena approvata in via definitiva, tra il giubilo dei grillini e dello stesso presidente del Consiglio. Il giorno in cui dovesse essere completata davvero questa riforma, che cosa onestamente rimarrà di valido, di attuale, di legittimo in un Parlamento eletto nel 2018, con le vecchie regole, nella vecchia composizione?
Non mi sembra francamente una domanda peregrina, specie pensando alla fretta, se non alla frenesia, con la quale nel 1994 furono sciolte le Camere elette meno di due anni prima perché delegittimate – disse l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro – dalla sopraggiunta approvazione di una nuova legge elettorale.
Gli onorevoli scrutano altrove mentre Sgarbi s’inventa lo “stupro”…
Peggiore della riduzione dei parlamentari approvata definitivamente dalla Camera senza una contestuale riforma di altre parti della Costituzione e della legge elettorale è solo il modo col quale la si è contrastata da certe parti che pure avevano buoni argomenti per criticarla. Poveretti, si sono tagliati l’erba sotto i piedi non sanno più chi sono o quanto dureranno
Sono rimasto, per esempio, letteralmente esterrefatto nel sentire l’amico Vittorio Sgarbi gridare nell’aula di Montecitorio allo “stupro” che sarebbe stato compiuto contro il Parlamento dai grillini e dai loro nuovi alleati di governo, come se i vecchi passati all’opposizione – i leghisti di Matteo Salvini – fossero stati contrari, e non favorevoli pure loro.
Mai rapporto politico, diciamo così, mi è apparso così consenziente, per quanto paradossale come lo spettacolo, giustamente descritto da Federico Geremicca sulla Stampa, dei “tacchini in festa a Natale”. E’ difficile dare torto, d’altronde, a Renata Polverini, ormai in transito da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, quando spegne l’entusiasmo o solo la fiducia di chi si prepara al referendum di verifica sulla riduzione dei parlamentari dicendo di sentire nel Paese «un vento che non ammette riflessioni, resistenze, pensieri ostili» ai tagli appena approvati. E ciò anche se i grillini hanno sparato, a loro favore, risparmi stellari ridotti, o demoliti, da chi sa fare di conto allo 0,007% delle spese annuali dello Stato, e forse anche meno.
Sugli umori della ggente, con la doppia consonante dei mercati popolari, aveva forse ragione nel 2007 l’allora deputato Marco Boato a compiacersi dell’abolizione della pena di morte dall’inciso costituzionale «se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra» avvenuta «per fortuna» con la maggioranza parlamentare superiore ai due terzi. Ciò le risparmiò infatti la grave incognita del passaggio referendario: grave perché, gratta gratta, la pena di morte in certe circostanze faceva e forse fa ancora meno orrore di quanto non si ritenga.
Già esterrefatto, ripeto, per quello “stupro” gridato a Montecitorio volendo rappresentare l’aula come vittima di una violenza, lo sono ancor più diventato quando l’ormai incontenibile Sgarbi si è mescolato alle capre per le quali scambia in televisione i dissenzienti di turno evocando un altro stupro ancora per appaiarli: quello contestato nei mesi scorsi a un figliolo di Beppe Grillo per una serata trascorsa con amici nell’appartamento familiare di Porto Cervo, in Sardegna. Beh, questo, Vittorio, l’ultragarantista Vittorio non me lo doveva, non ce lo doveva fare, in pendenza peraltro di indagini.
Non si può, non si deve rovinare cosi, e così ripetutamente, una buona causa già costretta a navigare con una certa difficoltà nelle torbide acque della demagogia. Dalle quali i sostenitori in buona fede, vecchi e nuovi, della riduzione del numero dei parlamentari potranno fare uscire la loro riforma solo se e quando avranno davvero messo in cantiere e approvato le cosiddette misure compensative, di carattere costituzionale, legislativo e regolamentare, di cui adesso esistono solo i titoli: niente, ma proprio niente di più. Non vorrei, peraltro, che il passaggio dagli impegni ai fatti fosse ostacolato dalla paura, dalla preoccupazione e persino dalla consapevolezza di togliere così erba sotto ai piedi di una legislatura così fortunosamente o disinvoltamente salvata durante la crisi d’agosto esasperando, diciamo così, il pericolo Salvini: un’esasperazione quanto meno pari a quella cavalcata dallo stesso Salvini con la sua improvvisa e torrida campagna elettorale sulle spiagge, prenotando corse «da solo», ai danni dei suoi alleati locali di centro- destra, e «pieni poteri».
Diciamoci la verità, questo Parlamento eletto il 4 marzo dell’anno scorso, pur legittimamente in carica, per carità, ha perduto un po’ di penne per strada, un po’ di splendore, un po’ di salute, insomma, con le elezioni regionali e infine europee sopraggiunte alla sua nascita. Esse hanno cambiato, e di molto, i rapporti di forza fra i partiti, indebolendo tanto i grillini, per esempio, e rafforzando al contrario i leghisti, da aver fatto cambiare linea al Pd. Che ha ritenuto, a cominciare da Matteo Renzi, di potersi alleare al governo con i pentastellati senza indugio.
Un altro po’ di luce, di salute, di attualità il Parlamento della diciottesima legislatura l’ha perso proprio con la riduzione dei seggi della Camera e del Senato appena approvata in via definitiva, tra il giubilo dei grillini e dello stesso presidente del Consiglio. Il giorno in cui dovesse essere completata davvero questa riforma, che cosa onestamente rimarrà di valido, di attuale, di legittimo in un Parlamento eletto nel 2018, con le vecchie regole, nella vecchia composizione?
Non mi sembra francamente una domanda peregrina, specie pensando alla fretta, se non alla frenesia, con la quale nel 1994 furono sciolte le Camere elette meno di due anni prima perché delegittimate – disse l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro – dalla sopraggiunta approvazione di una nuova legge elettorale.
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