Diventa definitivo il giudizio negativo della Corte Europea sull’ergastolo ostativo italiano. Il collegio dei cinque giudici competente ha rigettato la domanda di rinvio da parte del governo italiano in merito alla sentenza Cedu del caso Marcello Viola. Quindi diventa definitiva la sentenza emessa il 13 giugno dalla camera semplice della Corte europea, la quale condanna l’Italia per la violazione dell'art. 3 della Convenzione, ovvero per tortura e trattamenti inumani e degradanti.

Il caso specifico, come detto, riguarda Marcello Viola. La sua pena perpetua è divenuta definitiva nel 2004. Egli, ricordiamo, si è sempre proclamato innocente e anche per questo, ma non solo, non ha mai scelto di collaborare, unica condizione per mettere fine all’ergastolo ostativo. Nel 2011 e nel 2013 ha presentato istanze di concessione del permesso premio, ottenendo sempre una risposta negativa.

Ma i giudici di Strasburgo hanno sentenziato chiaro e tondo che l’assenza di collaborazione non può essere considerata un vincolo, a cui subordinare la concessione dei benefici durante l’esecuzione della pena, e neppure può precludere in modo automatico al magistrato la valutazione di un progressivo reinserimento del detenuto nella società. Quindi, in sintesi, la Cedu fa cadere l’automatismo della collaborazione.

I giudici della Corte Europea, di fatto, mettono in discussione quella forma di ergastolo, e dunque la preclusione assoluta all’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale per i condannati non collaboranti, quando la condanna riguarda i reati dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario.

Tra le premesse, la Cedu spiega in sostanza che il rifiuto di collaborare del detenuto non è necessariamente legato alla continua adesione al disegno criminale e, d’altra parte, potrebbero aversi collaborazioni per semplice “opportunismo” non legate a una vera dissociazione dall’organizzazione mafiosa, per cui non può operarsi un’automatica equiparazione tra assenza di collaborazione e permanere della pericolosità sociale.

Ma quali conseguenze avrà, di fatto, la decisione della Cedu? Improbabile che i legislatori vorranno mettere mano al 4 bis, visto le numerose polemiche da parte degli esponenti di governo e l’affossamento parziale della riforma originaria dell’ordinamento penitenziario, che già era stata in parte disattesa dal governo Renzi, quando non aveva preso in considerazione la completa riforma del 4 bis indicata dagli stati generali sull’esecuzione penale.

Ma la sentenza della Cedu avrà come effetto innumerevoli ricorsi da parte dei cosiddetti “fratelli minori”, ovvero coloro che, pur non avendo mai personalmente ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, si trovano nell’identica posizione sostanziale del caso Viola. Di conseguenza la Cassazione si ritroverà sommersa di casi identici relativi alla preclusione automatica dell’accesso ai benefici.

Questo, però, fino a quando non ci sarà una eventuale sentenza della Corte Costituzionale che ne dichiari l’incostituzionalità. A quel punto, i legislatori saranno costretti a metterci mano. Ma la data già c’è. La Consulta, il 22 ottobre dovrà decidere se se la preclusione all’accesso dei benefici previsto dall’art. 4 bis è incostituzionale.

Questo grazie al caso dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, per cui la Cassazione ha rimesso, con ordinanza del 20 dicembre scorso, gli atti alla Corte Costituzionale sulla questione di legittimità dell’articolo 4 bis. Tale ordinanza della Cassazione relativa a Cannizzaro, assistito dall’avvocato Valerio Vianello Accorretti, accoglie quasi totalmente la questione del ricorrente, ovvero la sospetta incostituzionalità dell’art. 4 bis per violazione degli art. 27, comma 3 e 117 Cost., in relazione proprio all’art. 3 della Convenzione Europea. Una violazione della convenzione ora definitivamente riconosciuta anche dalla Corte Europea tramite la sentenza Viola.

Ricordiamo ancora una volta che l’attuale 4 bis non ha nulla a che fare con l’intuizione di Giovanni Falcone. Quest’ultimo, essendo stato Direttore generale degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, ha lavorato per la stesura del primo decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 che introdusse per la prima volta il 4 bis.

La ratio non prevedeva l’esclusione dei benefici se c’era assenza di collaborazione: nel caso si doveva attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato. Mentre il secondo decreto legge, approvato dopo la strage di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone, ha introdotto un regime ostativo del tutto differente rispetto a quello originario: senza la collaborazione con la giustizia, è preclusa in ogni caso la possibilità di accedere alle misure alternative.

Ed è ciò che i giudici della corte europea di Strasburgo hanno stigmatizzato, considerandolo, di fatto, una tortura. Anche perché, ebbene ricordarlo, non significa che automaticamente i detenuti per reati ostativi vengono liberati. Significa dare la possibilità ai magistrati – con l’ausilio del parere dell’antimafia – di valutare la concessione o meno dei benefici. Non sarà la mafia a ringraziare, ma lo Stato di Diritto.