«Non c’è stata alcuna anomalia, è stato fatto tutto in modo trasparente e secondo consolidate prassi». Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte prova ad allontanare da sé il sospetto di aver aiutato Donald Trump a sgonfiare l’inchiesta del procuratore Robert Mueller sul Russiagate, attraverso procedure poco trasparenti. «State scrivendo le cose più fantasiose», dice Conte ai giornalisti. «Il presidente del Consiglio non ha incontrato alcuna delegazione americana, ma se rispondessi ai giornalisti prima di riferire davanti al Copasir commetterei una grande scorrettezza istituzionale», spiega il capo del governo, prendendo nei fatti altro tempo prima di chiarire i dettagli di questa vicenda davanti agli organi preposti. Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, infatti, non ha ancora un presidente, dopo il trasferimento del precedente responsabile, Lorenzo Guerini, al ministero della Difesa. Fino alla nomina di un nuovo presidente, pienamente legittimato a effettuare le convocazioni, l’inquilino di Palazzo Chigi può lavorare alla sua arringa difensiva. L’attendismo, però, si trasforma in un assist insperato per l’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che sul “Russiagate” in salsa leghista fu bacchettato da Conte. «Altro che inesistenti scandali o rubli che arrivano da Mosca», attacca il segretario della Lega, «un presidente del Consiglio degno di questo nome dovrebbe la settimana prossima venire a riferire in Parlamento su un fatto sconcertante: ovvero l'utilizzo privato e personale dei servizi segreti», argomenta l’ex alleato, ribaltando l’accusa mossa nei suoi confronti dal presidente del Consiglio il 25 luglio scorso, quando Conte si presentò a Palazzo Madama, al posto del capo del Viminale, per riferire sui presunti rapporti tra il Carroccio e uomini vicini al Cremlino. Per gettare luce sulla vicenda il premier dovrebbe presentarsi «immediatamente» in Aula «per dire se è vero o falso quanto scrivono i giornali, ovvero, se è stato lui a dare indicazioni ai vertici di alcuni servizi segreti di incontrare ministri di paesi stranieri per dire che cosa? Per fare che cosa? Per promettere che cosa? In cambio di che cosa?», si chiede, col gusto della rivalsa, Matteo Salvini.

Rivalsa o meno, però, sono parecchi i punti oscuri su cui Conte ha il dovere di informare il Paese e rispondere ad almeno due quesiti dirimenti: perché il 15 agosto e il 27 settembre autorizza l’incontro tra una delegazione statunitense, guidata dal ministro della Giustizia William Barr, che cerca a Roma le prove per confutare la tesi dell’aiuto russo a Trump in campagna elettorale, e i vertici dei servizi segreti italiani? E perché a quei summit non sono presenti esponenti del governo italiano?

«L'amministrazione americana è molto diversa dalla nostra», spiega al Dubbio il generale Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore della difesa e attuale vice presidente dell’Istituto Affari Internazionali. «Il ruolo dei ministri copre gran parte dell'area amministrativa, non è un puro politico come avviene nel sistema italiano. Bisogna dunque tener conto di questo aspetto quando parliamo di Barr», è la premessa. Ma altra cosa è l’assenza di un interlocutore di governo italiano a quel tavolo. «Se avesse preso almeno un caffè col ministro della Giustizia italiano sarebbe stato più logico», ironizza il generale. Di certo, assicura Camporini, «non è normale» che Trump utilizzi i servizi di un altro paese per ragioni di politica interna. «Il problema di Trump è che commette una serie abbastanza ampia di sgrammaticature». Bisogna chiarire, però, se quelle sgrammaticature hanno trovato sponda nel premier italiano. Anche perché la cronologia degli eventi ricade tutta all’interno di una finestra temporale ristrettissima e parecchio convulsa. Almeno per Giuseppe Conte, che tra la metà di luglio e la fine di agosto consuma una crisi di governo e il varo di una nuovo esecutivo riuscendo nell’impresa di rimanere ancorato a Palazzo Chigi, anche se a capo di due maggioranze diverse. Nel mezzo, una serie di tappe che segnano la rottura con la Lega e il matrimonio col Pd. A partire dal 16 luglio, quando il Movimento 5 Stelle, su impulso dell’avvocato del popolo abbandona la linea sovranista in Europa e contribuisce all’elezione di Ursula von der Leyen alla Commissione. È il primo vero smacco a Salvini, rimasto col cerino in mano dell’antieuropeismo, mentre i giornali di tutto il mondo scrivono degli incontri al Metropol di Mosca tra i russi ed emissari della Lega. Conte, dopo un anno di indecisioni, compie una sterzata improvvisa e riposiziona l’Italia in Europa e nell’alveo atlantico. Lo strappo definitivo col Carroccio avviene pochi giorni dopo, il 24 luglio, quando il presidente del Consiglio si presenta in Senato a riferire su Moscopoli al posto del diretto interessato. Due i concetti chiave espressi in Aula. Una presa di distanze: il ministro Salvini si rifiuta di fornire informazioni al suo premier. E una rassicurazione: «Nessun membro del governo si è discostato dalla linea di adesione alla Nato».

Due settimane dopo, il governo giallo- verde cade e alla fine d’agosto è pronta un’altra maggioranza. Nel frattempo, gli americani vengono almeno due volte a Roma per missioni di intelligence con l’autorizzazione di «Giuseppi», come twitterà Trump da lì a poco, facendo pubblica dichiarazione di stima nei confronti del premier che in quelle stesse ore si sta giocando la poltrona più importante di Palazzo Chigi. Un assist insperato, e forse determinante, su cui adesso Conte ha l’obbligo di chiarire.