In Senegal la donna aveva subito una mutilazione genitale e un’oppressione derivante da un matrimonio forzato. Per questo il tribunale di Genova, in una recente sentenza, ha accolto il ricorso della migrante, alla quale la commissione territoriale aveva negato lo status di rifugiata perché il suo racconto, a detta della commissione stessa, sarebbe stato poco coerente.

La donna ha però fatto ricorso, censurando il provvedimento di espulsione, in quanto al momento dei fatti terribili che le erano accaduti era giovanissima e lo shock post traumatico le aveva comportato confusione cronologica. La sua storia è stata infernale.

All’età di 9 anni la madre l’aveva portata a vivere con il padre, le sue mogli ed i numerosi fratelli, andandosene a vivere in una località turistica del Senegal per lavorare. Da allora non aveva mai più sentito la madre, mentre aveva dovuto iniziare a lavorare in modo pressoché esclusivo per tutti i familiari del padre - coltivava i campi, cucinava per tutti, lavava i piatti - riuscendo a studiare la sera presso un istituto alberghiero.

Nel 2012, quando aveva compiuto 17 anni, la nonna paterna e il padre l’avevano promessa in sposa ad un uomo di 60 anni che aveva già 4 mogli e, siccome si era rifiutata, dopo una prima reazione violenta e molto coercitiva, il padre e la nonna avevano cambiato atteggiamento, cercando di convincerla con le buone maniere, ovvero con regali costosi che lei sapeva essere “finanziati” dal promesso sposo.

Sempre nel 2012, era stata costretta, per volere della nonna paterna e con il consenso del padre, a subire l’infibulazione con modalità rudimentali, con una violenta cerimonia alla quale aveva provato ad opporre resistenza senza riuscirvi e dalla quale era conseguita una grave infezione con postumi. Era stata l’unica femmina della famiglia ad essere sottoposta a tale mutilazione perché, a suo avviso, avevano voluto farle del male per essersi opposta al matrimonio, oppure per vendicarsi per la condotta della madre, che ha voluto divorziare mettendo in imbarazzo la famiglia paterna.

In ogni caso, dopo tre anni ( quindi nel 2015), avendo compreso quale era il fine ultimo dei regali, era fuggita nella capitale ospite della cugina con la quale aveva solidarizzato e con la quale era partita per la Libia, dove era stata imprigionata fino a quando non aveva pagato il suo riscatto. Durante la prigionia ha subito aggressioni e violenze sessuali. Tanto da subire anche una lesione mandibolare.

Una vita infernale che l’ha portata a cercare rifugio in Italia. La commissione territoriale le ha però negato la protezione umanitaria. Ma tramite l’avvocata Alessandra Ballerini ha fatto ricorso e il tribunale di Genova l’ha accolto, riconoscendole lo status di rifugiata.

Tra le motivazioni dell’accoglimento, «il Collegio ritiene che sotto altro assorbente profilo la domanda della ricorrente meriti accoglimento, ovverosia le mutilazioni genitali subite in giovane età, trattandosi di atti di persecuzione che trovano ragione nella sua specifica condizione di genere, ovverosia di appartenenza al genere femminile (...) È allora indubbio che la ricorrente appartenga al “gruppo sociale” delle donne, ed in quanto tale sia stata perseguitata, essendo stata costretta alla mutilazione genitale che costituisce una grave violazione dei diritti delle donne, oltraggiando il loro diritto all’integrità fisica e psicologica, oltre allo stesso diritto alla salute ( le donne che hanno subito mutilazioni genitali sono soggette a cicatrizzazioni e altre complicanze che talvolta aumentano il rischio di situazioni ginecologiche critiche) nonché il diritto di essere libere da ogni forma di discriminazione» .