Si resta perplessi a sentire discutere della possibile reintroduzione nel nostro ordinamento del sistema elettorale proporzionale. Rimasto in vita durante tutta la durata della Prima repubblica, esso fotografava la specificità italiana: un multipartitismo estremo e polarizzato, ad elevata frammentazione ideologica. Partiti estremi ( Pci, Msi) esclusi dalla formazione dei governi ( conventio ad excludendum) e un partito di centro ( Dc) che, di volta in volta, per governare, si accordava con le formazioni politiche minori. Una “democrazia mediata”, per dirla con Maurice Duverger. Nel senso che gli elettori, al momento del voto, conferivano un mandato in bianco ai partiti per la formazione del governo, sulla quale tuttavia quasi nulla potevano incidere. Il Paese e la riforma elettorale: perché non possiamo non dirci maggioritari.

Quel sistema proporzionale venne spazzato via dal referendum elettorale del 1993: quasi 29 milioni di elettori scelsero il meccanismo maggioritario per eleggere i parlamentari. Il messaggio era chiaro e netto. Una cesura col passato e l’avvento di una nuova stagione.

Le leggi elettorali successivamente introdotte, a forte impronta maggioritaria, c. d. leggi Mattarella ( 75% e 25% di proporzionale), hanno cambiato radicalmente, e in positivo, la competizione politica e il rapporto tra governanti e governati. Gli effetti sono stati: a) nascita di coalizioni preelettorali invece che post elettorali; b) produzione di maggioranza di seggi al momento del voto; c) elezione sostanzialmente diretta del capo del governo.

Il che ha significato: evidenza nella formazione delle coalizioni e nei programmi, responsabilizzazione della classe politica davanti agli elettori, ruolo finalmente centrale ed effettivo degli elettori e dei loro orientamenti. Di fronte a questi pregi non sono mancati alcuni riflessi di segno opposto, tra cui l’avere agevolato la frammentazione del quadro politico ( che però aveva ben più importanti cause “esogene”), la formazione di coalizioni eterogenee e di governi poco coesi.

Certo, vi è sempre una relazione importante tra legge elettorale e forma di governo. In particolare la prima impatta sulla seconda perché ha effetti conformativi sull’assetto dei poteri a investitura politica e sui rapporti Governo- Parlamento. Ma questo non basta a sopravanzare quei vantaggi. E, comunque, sarebbe riduttivo pensare di risolvere il problema della governabilità con la sola panacea della legge elettorale.

Le modifiche al sistema di votazione, intervenute a partire dal 2005, hanno mantenuto una vocazione “maggioritaria”. E tornare indietro adesso, invece che portare a compimento il disegno di un bipolarismo finalmente maturo, sembrerebbe un vero paradosso.

Se poi dietro vi fosse l’intento di ricreare le condizioni per una sorta di riedizione della conventio ad excludendum nei confronti dei partiti che si trovano all’opposizione - oggi la Lega primo partito nazionale - sarebbe un grave errore strategico e un disegno inquietante. Quello di una democrazia zoppa, dove ci sono partiti a pieno diritto di governare ed altri no, perché sono di serie B, quale che sia la quantità dei loro elettori, che sarebbero di serie B loro stessi.

Insegna la storia che piegare la legge elettorale agli interessi di parte e alle convenienze contingenti non solo è politicamente miope, ma può avere anche esiti del tutto inattesi.

Nei sistemi parlamentari, i governi – si usa dire – “si formano in Parlamento”. Ma la sovranità - non dimentichiamolo appartiene al popolo non alla o alle Camere.

Il Paese “legale”, fondamento primo della democrazia rappresentativa, deve quanto più riflettere il Paese “reale”. E perciò il sistema elettorale non può essere piegato a divenire una variabile indipendente rispetto alla sovranità popolare. Occorre permettere al popolo sovrano non solo di essere rappresentato, ma anche di decidere come essere rappresentato.

Ragionando diversamente, secondo la tesi che dominava nella Prima repubblica e che fu a base della sua triste fine, si degraderebbe la sovranità ad apparenza. Al contrario, la sovranità popolare si realizza se si procede in direzione di una sempre minore distanza tra suo possesso e suo esercizio. Perché la democrazia dice Alain de Benoist - è “partecipazione di un popolo al proprio destino”.