Capita spesso di sentire rinomati giuristi che tessono l’elogio delle costituzioni programmatiche ( Weimar, la nostra), vedendo in esse il superamento dell’astratto liberalismo dei diritti. E’ vero, quelle costituzioni sono democratiche ma se contengono ( indubbiamente) ‘ elementi di liberalismo’ non ne costituiscono certo l’inveramento su un piano superiore.

Esse, infatti, affidano sostanzialmente allo Stato il perseguimento di obiettivi che sono della società civile - salute, benessere, sicurezza sociale, pursuit of happiness etc. - e, in teoria, delegittimano ogni formazione politica contraria ai ‘ diritti sociali’che ne derivano. Alla base del presunto Aufhebung del liberalismo ( il termine hegeliano significa, insieme, critica e superamento di una formazione storica conservandone quanto è ancora valido), c’è un equivoco sul senso e sul significato del termine libertà.

La libertà liberale è, com’è noto, una libertà negativa: aggettivo non esaltante che, però, può venir riscattato assimilandolo a quello in uso per i referti di una malattia. Nell’Introduzione al suo saggio sulla Libertà, Isaiah Berlin così la spiega: «La misura della mia libertà politica o sociale è data dall'assenza di ostacoli non solamente alle mie scelte effettive, ma anche a quelle potenziali; ostacoli al mio fare una certa cosa, se per caso scelgo di farla».

Da tempo immemorabile grandi pensatori politici ne hanno rilevato l’insufficienza. Giuseppe Mazzini, ad esempio, nei Doveri dell’uomo, ha scritto: «Gli uomini che promossero le rivoluzioni anteriori s’erano fondati sull’idea dei diritti appartenenti all’individuo: le rivoluzioni proclamarono quei diritti; avevano predicato che il più alto dei beni era la libertà: le rivoluzioni conquistarono la libertà: libertà individuale, libertà d’insegnamento, libertà di credenze, libertà di commercio, libertà in ogni cosa e per tutti. Ma che mai importavano i diritti riconosciuti a chi non avea mezzo d’esercitarli?».

E’ un argomento che sopravvive nel buon senso collettivo degli italiani: lo si ritrova, ad esempio, nel programma del Partito d’Azione, che riprendeva la facile formula rosselliana ‘ Giustizia e Libertà’: facile giacché non si vede chi potrebbe non apprezzare sia la libertà sia l’eguaglianza. E tuttavia, a ben riflettere, fare della libertà negativa il primo tempo della libertà positiva - quella che sta a cuore a Mazzini e ai democratici di sinistra in genere e che consiste nel potere di fare qualcosa, perché se ne hanno le risorse, in mancanza delle quali il non essere impediti dal fare diventa irrilevante, se non una beffa - è profondamente sbagliato. Significherebbe, infatti, assimilare la libertà liberale alla mezza banconota che un noto sindaco di Napoli dava ai suoi elettori, con la promessa di consegnare l’altra metà, una volta accertato che avevano votato bene.

Le due libertà non sono le due parti del calviniano Visconte dimezzato ma sono beni qualitativamente diversi, entrambi desiderabili e desiderati ma inerenti a dimensioni diverse dell’etica politica. Per ricorrere a una metafora economica, la libertà negativa ( come non impedimento) non sta sullo stesso piano della libertà positiva in quanto la prima è assimilabile all’unità monetaria, al circolante, della società aperta - a un astratto, se si vuole - mentre la seconda designa un concreto, ciò che si può acquistare col denaro.

Di qui, per un liberale, la superiorità dell’una sull’altra: si preferisce essere retribuiti in denaro piuttosto che in natura, ricevendo, in cambio delle nostre prestazioni, beni e servizi giacché col denaro possiamo acquistare ciò che più ci piace mentre con le ‘ cose’ ricevute possiamo effettuare solo scambi incerti e spesso in perdita. Fuor di metafora, è vero che poter andare a Milano, acquistare una casa, trascorrere le ferie alle Bahamas senza che nessuno ce lo impedisca è una libertà solo ‘ teorica’ se non si hanno i mezzi per soddisfare i propri desideri.

Ma è altrettanto vero che, presa sul serio, solo la libertà negativa ci permette di ‘ metterci sul mercato’ e procurarci quei mezzi. Lo stesso Berlin, va detto, intervistato da Steven Lukes, in Tra filosofia e storia delle idee. La società pluralistica e i suoi nemici concede troppo ai paladini della libertà positiva. «Avrei dovuto dire di più degli orrori della libertà negativa e di ciò a cui conduce. (..) Sia l’uno che l’altro tipo di libertà possono avere degli esiti perversi. La libertà negativa è fondamentale, ed è fondamentale anche la libertà positiva. Sono entrambe forme di libertà di grandissimo valore che tutti vogliamo. Io non sono affatto contrario alla libertà positiva, correttamente intesa.

Ma non sono la stessa idea, e possono anche entrare in conflitto». E in un crescendo di ( ingiustificata) autocritica, prosegue: «La libertà negativa ha portato al laissez faire, alle sofferenze dei bambini nelle miniere di carbone e alla povertà. Ma la libertà positiva si è trasformata nel dispotismo totale, nell’annientamento della vita e del pensiero. Però avrei dovuto dire più chiaramente che la libertà positiva è un ideale altrettanto nobile e fondamentale della libertà negativa» . Che si tratti di ideali entrambi nobili è scontato.

E tuttavia Berlin sembra dimenticare che «le sofferenze dei bambini nelle miniere di carbone» e la povertà diffusa nelle società d’ancien régime caratterizzano epoche in cui la libertà negativa ce l’avevano solo le classi alte, i possidenti. La ‘ gente meccanica e di piccolo affare’ non poteva certo contare sul ‘ non impedimento’ ovvero sulla libertà di organizzarsi, di fondare sindacati e cooperative di piccolo consumo: c’era sempre qualcuno a impedirglielo, pronto a «sterminarli come cani».

Dove, al contrario, la libertà negativa stava a fondamento della convivenza sociale - anche in mancanza di ideologie che esaltavano la libertà positiva - si creava, con la libera circolazione di uomini e merci, benessere, integrazione, una sempre più elevata qualità della vita. Nord America docet.