Vogliamo parlare a quella gente che ha voglia di tornare a credere nella politica”. Eccolo, in estrema sintesi, l’obiettivo di Matteo Renzi. “Italia viva”, dunque, si candida a coinvolgere soggetti, in misura rilevante osiamo immaginare, che hanno interesse alla politica ai quali è stato in qualche modo inibita l’agibilità per farla. Questo, almeno, è quanto ci suggerisce l’apodittica definizione del nuovo partito nato dall’ennesima scissione nella sinistra.

Se davvero la sua “creatura” vuol parlare all’Italia che ha voglia di politica, Renzi non può lasciare inevasa la risposta alla domanda più ovvia: e cioè perché questo partito, squassandone un altro, dovrebbe fare ciò che qualsiasi corrente avrebbe potuto facilmente dispiegare all’interno della complessa e plurale casa madre? La prevedibile obiezione in politichese, vale a dire l’impedimento ad agire dovuto ad una sorta di condizionamento politico che avrebbe frustato le ambizioni renziane, per quanto non soddisfacente, potrebbe comunque essere sufficiente per comprendere parzialmente l’ardita mossa.

A patto di conoscere quali sono gli scopi del leader e dei suoi seguaci posto che neppure un’ idea, in queste travagliate settimane ( e nel tempo trascorso dalla caduta referendaria ad oggi) è venuta fuori dall’effervescente entourage. Niente, insomma, che ci faccia capire quali sono le differenze che hanno determinato l’incompatibilità tra Renzi ed il gruppo dirigente dem.

Per essere ancora più espliciti: politica economica, politica sociale, politica internazionale di sicurezza e di difesa sono così diverse da quelle praticate finora dal Pd renziano e “derenzizzato” da imporre la nascita di un movimento antagonista al partito di provenienza? Non dovremmo meravigliarci più tanto: da tempo nascono soggetti politici privi di uno strutturato programma politico fondato su una cultura di riferimento e teso a rappresentarne ben precise ed individuate fasce di elettorato. L’operazione di Renzi è coerente, dunque, con la logica del “partito personale”, del leaderismo estremo. È trasformismo puro. Finalizzato ad animare un’altra nicchia di potere dalla quale esercitare un ruolo più o meno decisivo per le sorti del Paese.

E poi, sullo sfondo, c’è la legge elettorale. Soltanto il ritorno al proporzionale può garantire a Renzi il successo della sua operazione. Per questo, trovando molte sponde nel nome dell’antisalvinismo, si mobiliterà mettendo in difficoltà innanzitutto il Pd dove le resistenze si fanno sentire, soprattutto tra i “padri nobili” che non hanno rinunciato a nutrire la vocazione maggioritaria e l’illusione che le coalizioni garantiscano la stabilità. Forse soltanto un maggioritario puro, senza quota proporzionale, potrebbe risolvere il problema del trasformismo.

Ma chi se la sente di farlo, tanto più con un numero di parlamentari minore dell’attuale che favorirebbe la dilatazione dei collegi a detrimento della rappresentanza territoriale, uno dei presupposti della stessa logica maggioritaria? A Renzi tutto questo poco importa. Lui, come i detestati populisti, collocandosi comodamente al di là della destra e della sinistra può muoversi come vuole. Ed anche se ottenesse percentuali elettorali non proprio ragguardevoli, nel sistema che immagina è convinto di poter essere ago della bilancia. In un sistema frammentato c’è posto per tutto. Ma il prezzo sarà salato.